Introduzione di Jennifer Homans
L'amore e la dedizione per la danza nascono anche così, lasciandosì andare e affidandosi a buoni maestri, soprattutto se provengono dai Ballets russes. Leggiamo le parole di Jennifer Homans nella sua Introduzione Maestri e tradizioni.
Ballare “bene” non era una questione di opinione o gusto personale: il balletto era una scienza esatta, composta da verità dimostrabili fisicamente. Era anche (cosa altrettanto affascinante) una disciplina ricca di emozioni e di tutti i sentimenti che accompagnano la musica e il movimento. Era beatamente muto, come la lettura. E per me, soprattutto, c’era l’entusiasmante senso di liberazione che provavo quando tutto funzionava a dovere. Se coordinazione, tempi, sensibilità musicale e impulsi muscolari erano perfettamente giusti, il corpo prendeva il sopravvento. Potevo lasciarmi andare. Ma nella danza lasciarsi andare significa tutto: mente, corpo, anima. È per questo, credo, che molti danzatori descrivono il balletto, pur con i suoi limiti e le sue regole, come una fuga da se stessi, come un sentirsi liberi. Fu alla School of American Ballet di George Balanchine, a New York, che per la prima volta intravidi il mondo che aveva reso tale il balletto classico.
Le insegnanti erano russe: ballerine esotiche e affascinanti che provenivano da un’altra epoca. Felia Doubrovska (1896-1981) era nata in Russia nell’Ottocento e si era esibita al Teatro Mariinskij, nella San Pietroburgo imperiale, negli anni antecedenti la Rivoluzione russa. In seguito si era unita ai Ballets Russes in Europa e alla fine si era stabilita a New York per insegnare, ma noi tutti sapevamo che una parte di lei era ancora altrove, in un mondo molto lontano dal nostro. Tutto in lei era diverso. Era sempre truccatissima, con lunghe sopracciglia finte e profumi stucchevoli, e la ricordo ingioiellata dentro un body blu reale con un foulard coordinato, una gonnellina di chiffon e un paio di collant rosa che mettevano bene in mostra le sue gambe particolarmente lunghe e ancora muscolose. I suoi movimenti, anche quando non danzava, erano graziosi ed eleganti, e noi, adolescenti americane, non riuscivamo mai a replicarli del tutto.
C’erano anche altre insegnanti: Muriel Stuart, una ballerina inglese che aveva danzato con la leggendaria Anna Pavlova; Antonina Tumkovsky ed Hélène Dudin, entrambe di Kiev ed emigrate negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale (la Dudin aveva i piedi storpi; si diceva che glieli avessero rotti i sovietici); e – forse la presenza più straordinaria di tutte – Aleksandra Danilova, fuggita da Leningrado nel 1924 con Balanchine. La Danilova era come la Doubrovska: un’ex ballerina imperiale che amava gli abiti rosa di chiffon, le sopraciglia finte (a zampette di ragno) e i profumi particolarmente intensi. Era orfana, ma nessuno di noi dubitò, nemmeno per un attimo, che fosse figlia di aristocratici. Ci insegnava portamento e condotta, non solo in classe ma anche nella vita: niente magliette, posture accasciate o cibi da asporto; ci ricordava che la nostra pratica e la nostra professione ci distinguevano dagli altri giovani, che le ballerine non erano come “il resto”. Tutto ciò ci sembrava al tempo stesso perfettamente normale ed estremamente alieno.
Normale perché sapevamo di avere a che fare con delle autentiche maestre e perché capivamo che esse avevano qualcosa di importante da trasmetterci. Oltretutto, c’era davvero qualcosa di particolare nella nostra postura eretta, nel nostro muovere il corpo in modo così aggraziato, nel nostro impegno e intenso desiderio di danzare che ci distingueva davvero dagli altri. Eravamo, o almeno così pensavamo, degli eletti. Ma il tutto era anche molto alieno: nulla ci veniva mai spiegato veramente e gli insegnamenti sembravano arbitrari e autoritari. Da noi si aspettava che imitassimo e assimilassimo e che, soprattutto, obbedissimo. «Prego, fare», era il massimo che le russe riuscivano a profferire e i “perché?” erano accolti con perplessità o palesemente ignorati. Era proibito studiare altrove (una delle poche regole che ignoravamo spudoratamente). Non accoglievamo con facilità tutte quelle disposizioni: eravamo figli degli anni Sessanta e i concetti di autorità, dovere e fedeltà ci apparivano scandalosi, antiquati e fuori luogo. Ma ero troppo interessata a ciò che quelle russe facevano per smettere o andarmene altrove. Alla fine, dopo anni di studio e osservazione, mi resi conto che le nostre maestre non ci stavano solo insegnando una serie di passi, o impartendo una semplice conoscenza tecnica, ma trasmettendo la loro cultura e la loro tradizione. “Perché?” era la domanda sbagliata e i passi non erano solo passi, ma una testimonianza vivente di un passato perduto (per noi), di quel che le loro danze erano state, ma anche di ciò in cui loro, in quanto artiste e persone, credevano.