Raccontare il fronte con occhi di donna

Saggi e narrazioni

Raccontare il fronte con occhi di donna

«Be’, le politiche si possono cambiare, sapete, il mio sesso invece no». Helen Kirkpatrick non ne poteva più di scuse e pretesti. Quando, all’inizio del 1940 l’editore del «Chicago Daily News» le rifiutò l’incarico di corrispondente dall’estero perché sarebbe stato contrario alle politiche aziendali, la giornalista non si trattenne e diede quella risposta secca e piccata. La schiettezza, in questo caso, pagò, e Kirkpatrick venne inclusa nel novero delle firme di punta dell’autorevole giornale, prima nella redazione londinese durante i mesi terribili della Battaglia d’Inghilterra, poi in Nord Africa, in Italia in Normandia e nella Parigi liberata, fino alla scoperta dell’orrore di Buchenwald.

Come le altre cinque protagoniste de Le corrispondenti, Helen Kirkpatrick trovò sulla propria strada professionale ostacoli e impedimenti posti da militari e burocrati, tutti maschi, per i quali la parità tra uomini e donne rimaneva semplicemente impensabile. A giocare contro le donne era in primo luogo, come sempre nel contesto, il corpo, le loro esigenze fisiologiche e la loro asserita debolezza.

«A quanto pare» osserva Judith Mackrell nell’Introduzione «per l’ipersensibile mentalità militare era inconcepibile che una donna potesse liberarsi in modo pratico e discreto nelle zone di guerra, e il “problema dei gabinetti”, che gli americani definivano in maniera più spiccia la “faccenda delle latrine”, avrebbe rappresentato l’argomento dominante in qualsiasi discussione relativa all’ammissione delle giornaliste tra i corrispondenti accreditati presso gli eserciti».

C’era poi la questione non nuova dell’adeguatezza delle donne ai contesti di rischio, il timore delle loro risposte in situazioni di pericolo, come se la dimensione tecnologica e mondiale della guerra non le esponesse a continue minacce nei paesi occupati, nelle città bombardate, nelle incombenze cui erano chiamate insieme o in sostituzione degli uomini. Le corrispondenti di guerra vedevano così minacciato il proprio lavoro da considerazioni grette, umilianti, che nascondevano le paure degli ambienti conservatori verso una paventatissima «invasione femminile».

I comportamenti discriminatori erano spesso causati da semplice misoginia. In questa attitudine, secondo Mackrell, spiccava Bernard Law Montgomery: il generale britannico, protagonista delle campagne vittoriose in Africa, in Italia e in Francia, fu sempre uno dei più ostinati oppositori delle donne al fronte. Clare Hollingworth, che pure ne riconosceva il carisma e le doti strategiche, lo considerava un «frenetico piccolo comandante» e, appunto, «una specie di misogino».

Al di là delle inclinazioni dei singoli, tuttavia, e a loro fondamento, stava la rappresentazione della donna condivisa dalla società occidentale negli anni Quaranta. La Seconda guerra mondiale offrì indubbiamente delle opportunità alle donne su vari piani, ma non sradicò pregiudizi e stereotipi. L’esperienza bellica di uomini e donne rimase al contrario diversa e asincrona, con gli uni nella funzione di combattente e le altre in quella di oggetto da proteggere, insieme ai bambini, in un processo di rielaborazione normativa dei generi alla luce dell’interesse nazionale.

A dispetto di questa visione del mondo Martha Gellhorn, Sigrid Schultz, Virginia Cowles, Helen Kirkpatrick, Lee Miller e Clare Hollingworth non pretesero mai trattamenti speciali, ma si batterono per essere tra le migliori nella professione che avevano scelto per vocazione, per senso del dovere nei confronti della verità e per dare voce a chi non ne aveva. Ma i successi di queste coraggiose giornaliste, conclude Mackrell, «non dovrebbero essere separati dalla loro esperienza di donne. Negli articoli che hanno inviato, nelle loro memorie, nei diari e nelle lettere, non solo hanno scritto la storia nel momento in cui si faceva, ma ne hanno soprattutto scritto una versione che era loro, una versione modellata sul fatto di essere donne, e modulata con voce femminile».