I postumi
Per dare il 'la' alla lettura del giallo culinario di Luca Iaccarino, Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi di Torino, che c'è di meglio che proporvi le prime pagine? Non possiamo certo rischiare di anticiparvi qualcosa del delitto scegliendone altre - anzi, dei delitti che affollano la storia! Per altro, queste righe d'esordio parlano già di 'postumi' piacevolmente condivisibili e, come i migliori antipasti, sono saporite al pari del romanzo che introducono.
Primavera, Torino, vecchio centro, affollata osteria. Se in città è rimasta una piola, è questa: Caffè Vini Emilio Ranzini. C’è tutto quel che ci deve essere: il bancone bar, il distributore di noccioline, le mensole con gli amari, il pavimento in graniglia, i tavolacci, le sedie di legno, odor d’umido e barbera. Fuori, oltre la luce gialla dei lampioni, ci sono il Duomo, il Palazzo Reale e il rumore bagnato dei rari pneumatici che passano sul lastricato: è appena venuto giù un acquazzone tropicale. Dentro la stanzetta – il Caffè Vini è poco più d’una cantina – s’è stipati, vaporosi e accaldati: è l’ora dell’aperitivo e ai pensionati di rigore si sommano i giovani della cosiddetta “movida”, che vanno matti per i posti “autentici”. È facile riconoscere i primi dai secondi: i pensionati sono vecchi e i giovani sono giovani; i pensionati sono uomini e i giovani sono ambisex; i giovani fan casino, i vecchi stanno zitti, al limite borbottano.
Dietro al bancone ci sta Emiliano, ragazzone dinoccolato con il grembiule da oste, terza generazione di Ranzini: ai vecchi serve bicchieri di barbera e dolcetto, ai giovani pure. Se qualcuno prova a chiedere uno spritz, risponde, laconico, «non ce l’ho, lo spritz, ce l’hanno in piazza, lo spritz» riferendosi alla vicina piazzetta IV Marzo, cuore antichissimo della città ora riempitasi di locali della, arieccola, “movida”. Dopo il bancone, a sinistra, alcune lavagnette segnalano le specialità della casa: acciughe e tomini al verde, insalata russa, vitello tonnato, frittatine, cose così, da merenda sinòira.
Sotto quelle lavagnette, nell’angolo, è stato ricavato lo spazio per un piccolo tavolo da un solo coperto. Un cantuccio sacrificato, sommerso dalla gente vociante tutt’intorno. Di solito vi siede Umberto, cliente da tutte e tre le generazioni, ma questa sera no: questa sera ci sono io.
Se fendete la calca che puzza di cane bagnato, mi vedrete: sono quello che si sta bevendo la seconda bottiglia di rosso, tentando di tamponare gli effetti della sbronza mangiando acciughe e uova sode (le uova sode sono taumaturgiche). Ho la faccia paonazza e gli occhi lucidi e se mi rivolgerete la parola, vi biascicherò una storia assurda che parla di cuochi, di complotti, di gastronomia, di gran bollito, fritto misto, bagna caôda e delitti. E di questa piola, l’ultima, che io e Fernando – il più famoso chef del pianeta – difenderemo fin che avremo spirto e pupilla. Non me la porterete via, la mia amata osteria. Dovrete passare sul mio corpo. E stiamo parlando di un corpo piuttosto massiccio.