Intervista a Lou Reed
Marzo 1969, Howard Smith intervista Lou Reed, che gli racconta un bel po' di cose sfiziose sulla nascita e gli esordi dei Velvet Underground. Proponiamo un estratto della trascrizione, che potete trovare nella versione integrale all'interno di The Smith Tapes. 1969-72 Interviste con le rockstar e altre leggende della controcultura.
Il terzo album dei Velvet Undeground, omonimo, è uscito da poco e vede alcuni cambiamenti cruciali: John Cale, Nico e Andy Warhol non ci sono più, Lou Reed ora è sobrio e il disco è destinato a un sicuro successo di critica. I Velvet sono tornati a New York dopo un mese trascorso a suonare in giro, a Boston e a South Deer Eld, Massachusetts: una breve sosta, e pochi giorni dopo questo incontro con Smith sono attesi a Cleveland. New York è la città di residenza di Reed e dei Velvet Underground, e tuttavia non hanno suonato qui per quasi due anni.
SMITH: I Velvet Underground sono stati un’idea di Andy Warhol? Com'è andata?
REED: Dunque, noi già facevamo uno spettacolo di musica e luci, dove suonavamo dietro uno di quei teli trasparenti, alla Cinematheque, ancora nella vecchia sede di Lafayette Street. Poi lì hanno chiuso per traslocare in centro e siamo finiti a suonare al Cafe Bizarre, dove alla fine ci hanno cacciato. Prima, però, Barbara Rubin aveva invitato un po’ di gente a sentirci, Al Aronowitz, Nico, Gerard [Malanga] e altri. È stato Gerard, che fra l’altro è un tipo straordinario, a portare lì Andy [Warhol], ed è a Andy che è venuta l’idea di associare dei giochi di luci a una band di rock’n’roll. Cercava un gruppo rock o giù di lì e noi, da parte nostra, eravamo orientati in quel senso già prima di conoscerlo. L’idea ci ha entusiasmato e abbiamo detto di sì. Quando hanno aperto la nuova Cinematheque ed è toccato a Andy e a Jonas [Mekas] – non so se sai come funziona lì: chi vuole fare il regista d’avanguardia, gli danno spazio per una settimana – a quel punto abbiamo messo su uno spettacolo nostro. Si chiamava Uptight with Andy Warhol.
SMITH: Vi chiamavate già Velvet Underground?
REED: Ah sì, ci siamo sempre chiamati così, per via di un libretto sconcio che avevo trovato in una libreria, intitolato The Velvet Underground. Avevo pensato, «Toh, che bel nome» e me l’ero letto. Nell’introduzione, uno psichiatra definiva le pratiche sessuali clandestine nella Germania di prima della guerra come “vellutate”; a un certo punto diceva: «Venite a toccare con mano questa clandestinità di velluto», che non capivo bene che cosa volesse dire. Poi lo spiegava, e una cosa che in realtà era magica riusciva a farla sembrare noiosissima, tanto che quel nome è diventato un vero chiodo fisso. Siamo andati a suonare a Philadelphia in un club che ora non esiste più. Per un bel po’ di tempo è circolata la voce che noi facevamo chiudere i club: in poche parole, se volevi lucrare sull’assicurazione bastava scritturarci e, sicuro come l’oro, il club durava pochissimo... Ma lì, a Philadelphia, abbiamo saputo per caso che la ragazza che staccava i biglietti all’ingresso era la figlia di quello che aveva scritto The Velvet Underground. Ci siamo detti: se non è un messaggio questo! Perché io ci credo molto, ai messaggi e a quelle cose lì, e ho pensato: qui qualcuno sta cercando di dirmi qualcosa. Allora abbiamo mandato a chiederle, «Senti, non è che tuo padre ci firmerebbe il libro?» Lei ha detto «No, è morto di cancro». Eh già. E poi il club ha chiuso. Ecco qui la storia del nome.
SMITH: E questo, quanti anni fa?
REED: Quattro o cinque, era il ’64. Per dire, noi allora suonavamo Heroin. Per strada, sulla Centoventicinquesima all’angolo con la Settima Avenue, John con la viola e io con la chitarra, e la gente ci tirava le monetine. Incredibile, guarda... Era come adesso il blues revival, ma al contrario, cioè, eravamo noi ad andare su ad Harlem e a raccogliere soldi suonando in strada... Era più o meno all’epoca di I Want to Hold Your Hand dei Beatles. Con questo, non è che noi ci facessimo un gran caso, che ci credessimo molto avanti; facevamo le nostre cose e basta, mentre tutti gli altri hanno dovuto arrivarci col tempo. Invece noi avevamo un atteggiamento diverso, capisci? Noi siamo come un prisma in continua rotazione. Non è che abbiamo fatto una scoperta tutt’a un tratto, come mi pare invece che sia capitato a molti altri. Solo che adesso la scoperta sarà che non succede niente, vedrai, che stanno tutti raccontando balle.
SMITH: Come mai il gruppo non ha sfondato?
REED: Mah, non passiamo alla radio, credo che questo voglia dire molto.
SMITH: E perché no?
REED: Io in radio non ci vado. Tu, sì.
SMITH: Ma perché, secondo te?
REED: Perché, secondo me, i primi due album per la sensibilità media non erano accessibili come avrebbero potuto essere. Ci avevamo messo un livello di energia che in quel momento non era quello giusto. Cioè, era giusto per un certo tipo di persone, ma non per il livello medio, no? Perché non era quello che ci voleva... Insomma, in quel momento abbiamo fatto quello che dovevamo, per poter fare poi quello che facciamo ora, che sarà più accessibile, così alla fine sembreranno più accessibili anche i primi due album. Credo che questo nuovo album passerà alla radio e secondo me lo merita più degli altri due, proprio perché i primi due, se anche li avessero trasmessi, non sarebbero piaciuti tanto. E così non sarebbe servito a niente.
In altre parole, non è detto che non avessero ragione loro a non trasmetterci per radio, perché forse non era né il momento né il posto giusto. Mi segui? Magari invece il momento è adesso, e poi se uno vuole sentire i primi due dischi potrà sempre farlo. Non spariranno mica, voglio dire, non è il genere di dischi che ora c'è e fra un attimo non c'è più, perché non sono dischi legati al momento. Noi non siamo mai stati “attuali”. C’è chi scrive canzoni legate al momento presente. Sì, il disco l’abbiamo fatto in quel momento, ma non erano cose scritte per quel momento, non so se cogli la differenza. Insomma, la ragione per cui non andavamo in onda è che noi eravamo in un momento nostro e loro in un momento loro, che non corrispondeva al nostro. Poi, sì, in quel momento siamo riusciti a fare il disco, c'è stato quel tanto di corrispondenza che ci ha permesso di registrarlo, anche se non abbastanza per farlo trasmettere. Ora però le cose si sono un po’ smosse, credo che la gente si stia avvicinando al punto... Io ho l’impressione che, ora come ora, le due forme d’arte più importanti siano la radio e i dischi di rock. Il cinema non conta più niente, ma niente proprio. La tv, poi..