Nella città sospesa
Proponiamo un estratto dalla Prefazione del libro di Ronald Weber La via di Lisbona. Il richiamo al film Casablanca fatto dallo stesso Weber dà un tocco cinematografico alla vicenda che è alla base del libro. La ricostruzione storica condotta dall'autore, però, saprà restituirci un quando molto più completo e denso di vicende di quello che la finzione filmica lasci presagire.
La sceneggiatura di Casablanca si apre con una breve descrizione di Lisbona come uscita di sicurezza dall’Europa nazista:
"Una lunga inquadratura di un mappamondo che gira. Mentre gira, appaiono in sovraimpressione le di esuli in fuga. Durante la scena, si sente la voce fuori campo del narratore.
NARRATORE: All’inizio della Seconda guerra mondiale molti occhi dell’Europa oppressa si volsero pieni di speranza o di angoscia verso la libera America. Lisbona divenne il grande centro d’imbarco. Ma non tutti erano in grado di raggiungere direttamente Lisbona; molto spesso ai profughi rimaneva la sola alternativa di un lungo, tortuoso giro."
Mentre una mappa mostra la tortuosa via di Lisbona nel film, il narratore illustra il percorso elencandone le principali tappe: da Parigi a Marsiglia, quindi a Orano attraverso il Mediterraneo, poi lungo la costa africana fino a Casablanca nel Marocco francese – dove «aspettano, aspettano e aspettano» – e infine Lisbona.
La via di Lisbona racconta la storia di quei profughi che, come Ilsa e Victor Laszlo in Casablanca, si rifugiarono a Lisbona durante la guerra, trasformando la tranquilla città portuale al confine del continente nell’ultima porta aperta sulla libertà, nell’Europa occupata. La maggior parte dei profughi raggiungeva il Portogallo via terra e, di conseguenza, era a Lisbona che si consumavano le loro lunghe attese, non a Casablanca. Se Lisbona o riva una via di fuga dall’Europa, allo stesso tempo costituiva pure una via per accedervi, pertanto le pagine che seguono delineano anche il usso di tutte quelle persone che per un motivo o per un altro dovettero recarsi nelle zone di guerra.
Che entrassero o uscissero, coloro che percorsero la via di Lisbona vengono descritti sullo sfondo di una città illuminata, raggiunta quando ormai le luci dell’Europa si erano spente da un pezzo – ma che, diversamente dalla Ville Lumière fra le due guerre, rappresentava ora un luogo di transito per altre destinazioni. Quella che arrivò a Lisbona durante la Seconda guerra mondiale era una tribù di passaggio, persone per cui la conoscenza della città era strettamente legata all’urgente bisogno di un pasto, di un tetto sulla testa e di un ulteriore mezzo di trasporto.
La Lisbona dei portoghesi, in un certo senso, era come se non esistesse per quei viandanti, e viceversa. Un articolo pubblicato su una rivista americana del 1941, che descriveva la migrazione dei profughi attraverso Lisbona al suo apice, affermava: «tutti i portoghesi, insieme al loro dittatore, praticamente sparirono. Dall’esterno, di portoghesi non se ne vedevano, eclissati in quel momento dallo stuolo di fuggitivi che si riversò in Portogallo dopo il crollo della Francia». Hugh Muir, un giornalista inglese che lavorava a Lisbona durante la guerra, scriveva che l’ondata di profughi, diplomatici, spie e diversi altri che investì la città «lasciò i portoghesi per lo più com’erano». A parte chi lavorava negli alberghi e nei ristoranti, e quindi non poteva evitarlo, «sembrava che la maggior parte degli abitanti non si accorgesse del trambusto arrivato da fuori».
Ronald Weber, La via di Lisbona. In fuga dal nazismo nella città sospesa