Lettura: le linee guida del libro
Nella Premessa, Ennio Speranza enuncia e illustra i fili conduttori lungo i quali si svolge l'indagine di Una pianta fuori di clima.
Questo libro prende le mosse proprio dal lavoro di Verdi per abbracciare cinquant’anni di produzione per quartetto d’archi in Italia: appunto da «pianta fuori di clima», ossia frutto considerato marginale o estraneo alla cultura musicale italiana, a genere (im) perfettamente inserito in una realtà che, sebbene ancora nutrita in gran parte d’opera, vede la produzione strumentale e cameristica acquistare maggiore peso specifico, ma soprattutto una più ampia considerazione e diffusione attraverso regolari stagioni concertistiche.
Ho concentrato i miei sforzi soprattutto sugli aspetti formali e strutturali e sull’interazione di questi con i caratteri di scrittura: da questo terreno privilegiato discendono analisi che, avendo base comparativa, cercano di rintracciare linee di tendenza, strappi, comportamenti formali e gesti compositivi. La prima necessità è comunque quella di allontanarsi in qualche modo da criteri interpretativi derivati dalla musica di area germanica: lo schema storiografico che sta dietro alla ormai consueta e consunta definizione di “rinascita strumentale italiana” è inadeguato alla comprensione storica di un repertorio comunque costantemente praticato in Italia. La relativa abbondanza della produzione – nonostante le lamentele della pubblicistica dell’epoca e al di là di possibili e in parte doverose valutazioni estetiche che però non avrebbe senso compiere solo attraverso concezioni organicistiche e individualizzanti – lo dimostra.
Il <i>Quartetto</i> di Verdi viene perciò analizzato considerando la natura assolutamente anfibia del lavoro. Da un lato si dimostra come esso possieda quei caratteri di stringente organicità che i commentatori coevi hanno negato e gli analisti odierni non hanno sinora compiutamente rilevato; dall’altro si mette in evidenza come la costruzione formale si riveli di assoluta originalità pur nell’ossequio di una tradizione sonatistica defi nibile, come vedremo, “all’italiana”. Verdi fa proprie, non senza venature polemiche, alcune istanze dei fautori della musica strumentale senza per questo addivenire a soluzioni di comodo né accettare acriticamente modelli percepiti come “esogeni”; anzi, fonde stile individuale e scrittura autenticamente quartettistica – o tale considerata dai quei critici che additavano nel genere il fondamento d’ogni e qualsiasi ripresa d’un robusto strumentalismo italiano – per piegarla a personali esigenze comunicative.
Lo studio dei caratteri formali e scritturali dei due più interessanti quartettisti italiani del secondo Ottocento, ovvero Antonio Bazzini e Giovanni Sgambati, è preceduto da un non troppo esteso capitolo che illustra alcune modalità di recezione delle opere per quartetto d’archi maggiormente eseguite nell’Italia del secondo Ottocento e le linee guida che hanno condotto Abramo Basevi nell’analisi dei Quartetti op. 18 di Beethoven. Questi studi uscirono a puntate sulla rivista «Il Boccherini» tra il 1862 e il 1863, ma furono riuniti in volume dall’editore Guidi nel 1874; la loro importanza risiede nel fatto che possono essere qualificati come il primo contributo analitico in senso moderno su opere strumentali apparso in Italia – non pare un caso che la scelta sia caduta su una raccolta di quartetti per archi – e che lasciano trasparire, in diversi punti, un carattere precettistico.
Il confuso periodo a cavallo dei due secoli vede il fiorire di una pluralità di tendenze determinate in parte dalla profonda crisi in cui versa ormai il linguaggio romantico: il quartetto d’archi in Italia si muove tra accademismo, ristagni romantici e i tentativi di sperimentare nuovi linguaggi, inusitati rapporti formali, una scrittura sempre più dinamica e aperta a nuove possibilità d’ordito. Le varie tendenze vengono isolate e descritte a partire dal commento di alcuni quartetti che, in certo senso, si dimostrano sufficientemente paradigmatici o, d’altro canto, mostrano caratteri di spiccata originalità in rapporto al contesto generale. Un intero capitolo è dedicato alla produzione di Antonio Scontrino, esemplare tentativo di progressiva, ma lenta liberazione dall’influenza del post-romanticismo tedesco da parte di un compositore che in Germania aveva studiato – per inciso, non è un caso che molti dei compositori che approdano più o meno con regolarità e con convinzione al quartetto d’archi compiano fondamentali esperienze di studio al di fuori dell’Italia.
La terza sezione prende in esame la produzione per quartetto d’archi principalmente compresa tra il 1910 e il 1925: si è fatta più marcata e pervasiva la riesumazione del passato musicale italiano che si caricherà ben presto di elementi mitici. Tale riemersione dell’“antico”, condotta su diversi livelli e con differenti strategie, porta conseguenze cruciali ovviamente anche nell’ambito compositivo. Il quartetto per archi ne è comunque investito solo parzialmente: i retaggi del classicismo rimangono operativi nella gran parte dei compositori, anche quando viene forzata la materia musicale. Il quartetto per archi è ancora percepito quale forma “accademica” e poco permeabile alle sperimentazioni: l’abbandono delle consuete forme classico-romantiche è frenato da notevoli resistenze e si rivela compiutamente – ma ambiguamente per quanto riguarda i primi due – solo nelle opere mature di Respighi, Casella e Malipiero che, comunque, appaiono intorno agli anni Venti.
Di questi tre compositori è presentata la produzione per quartetto d’archi con particolare evidenza accordata ai contrassegni formali. La consapevolezza di alcune mancanze del presente lavoro impone più di una precisazione. Sebbene vi siano accenni non eccessivamente fugaci, non ho potuto occuparmi con la dovuta ampiezza del sistema concertistico, degli aspetti più propriamente storico-sociali e di gran parte del dibattito estetico sulla musica strumentale. Sulle alterne vicende delle istituzioni musicali e dei protagonisti principali della vita concertistica vi è comunque una sufficiente e crescente bibliografia, soprattutto di ambito locale, cui fare riferimento. Il più ampio spazio concesso alla produzione del secondo Ottocento è dovuto principalmente al fatto che la musica italiana del primo Novecento – e quindi anche quella legata al quartetto per archi – è stata indagata con una certa attenzione: ho comunque preferito accentuare i caratteri di continuità fra Ottocento e Novecento piuttosto che quelli di rottura.
In ogni caso, sono consapevole che la parte dedicata al Novecento può risultare meno esauriente: su Malipiero, Respighi, Casella e sulle loro opere per quartetto esistono comunque alcuni studi che possono integrare quanto da me riportato. Il gran numero di composizioni prese in esame ha naturalmente influito sulle analisi, molte delle quali hanno sofferto di schematismi, ma ho dovuto operare delle scelte e in alcuni casi privilegiare una visione d’insieme dei fenomeni. Un ultimo appunto riguarda il periodo 1890-1910: la trattazione più snella e forse sommaria di quegli anni non significa che siano stati da me considerati “periodo di transizione”, categoria, questa, sempre piuttosto sospetta. La produzione per quartetto d’archi subisce un calo qualitativo, anche per l’assenza di figure importanti e catalizzatrici che invece non mancano nelle altre due ripartizioni temporali.
Dalla Premessa di Una pianta fuori di clima. Il quartetto per archi in Italia da Verdi a Casella
© EDT 2013