Suonare a memoria. Tutto o quasi...
La fatica dell'interprete nelle maratone concertistiche della fine del diciannovesimo secolo era persino maggiore di quella del pubblico, soprattutto se si considera la tendenza a suonare recital interi a memoria, con il dovuto rispetto verso i grandi capolavori musicali (in genere tedeschi) del passato. Possiamo, tuttavia, esprimere un certo scetticismo nei confronti della convinzione di Amy Fay secondo la quale Tausig «morì [...] di febbre tifoidea, provocata dal sovraffaticamento della sua memoria musicale».
Rubinštejn, quantomeno, non patì una "morte da sforzo mnemonico", nonostante la lunghezza dei suoi programmi. Ma non sorprende che la sua leggendaria memoria soffrisse di lapsus altrettanto leggendari, che divennero sempre più gravi via via che invecchiava. Forse, persino lui sottovalutava la questione, pur ammettendo quanto segue: "La mia memoria musicale è stata prodigiosa fino ai cinquant'anni, ma da allora mi sono reso conto di un suo indebolimento progressivo. Inizio a percepire un senso di incertezza; quando mi trovo sul palco alla presenza di un vasto pubblico, qualcosa di simile a una paura nervosa si impossessa di me. È difficile immaginare quanto questa sensazione possa essere dolorosa. Spesso temo che la memoria mi tradisca facendomi dimenticare un passaggio e che io possa modificarlo inconsapevolmente. Il pubblico è abituato da sempre a vedermi suonare senza spartiti, perché non li ho mai usati, e non mi concedo di fare affidamento sulle mie sole risorse per rimpiazzare qualche passaggio dimenticato, perché so che nel pubblico ci saranno sempre diversi spettatori che conoscono bene il pezzo che sto interpretando e che individueranno prontamente qualunque modifica. Questa sensazione di incertezza ha spesso costituito per me una tortura paragonabile soltanto a quella dell'Inquisizione, mentre il pubblico che mi ascolta pensa che io sia perfettamente calmo".
I racconti sulle difficoltà mnemoniche di Anton Rubinštejn durante le sue esibizioni sono innumerevoli; in alcuni si narra di come dimenticasse parti del suo Concerto per pianoforte e orchestra in re minore. Quando Leschetizky diresse il Concerto per pianoforte e orchestra di Schumann con Rubinštejn come solista, fu costretto a interrompere l'orchestra perché nel primo movimento il pianista aveva preso una direzione disastrosamente sbagliata. Rubinštejn imperversò per diversi minuti suonando qualunque cosa gli venisse in mente, finché per fortuna arrivò a un passaggio della cadenza che Leschetizky riconobbe e che gli permise di dare affannosamente la battuta d'entrata all'orchestra confusa. Disastri simili accadevano non di rado anche ad Alfred Cortot, a proposito del quale il direttore Sir Thomas Beecham, in un'occasione memorabile (o forse no!), scherzava affabilmente: «Abbiamo cominciato con Beethoven, e poi sono stato al passo con Cortot attraverso Grieg, Schumann, Bach e Čajkovskij, poi però si è imbarcato in una cosa che non conoscevo e così ho dovuto gettare la spugna».
Paradossalmente, Cortot era un fedele sostenitore dell'idea che i pianisti dovessero suonare a memoria il loro repertorio da solista. Suonare con lo spartito «non faceva sicuramente alcun danno», ammetteva Cortot, ma lo studio serio di un pezzo ne richiedeva la memorizzazione. Josef Hofmann concordava sul fatto che suonare a memoria fosse «indispensabile per la libertà della resa». Nonostante le sue esperienze con Rubinštejn, Leschetizky suggeriva ai propri allievi di imparare i pezzi a memoria prima di iniziare a esercitarsi dettagliatamente su di essi; in seguito, li scoraggiava dal consultare lo spartito tranne quando la memoria falliva. Tuttavia, Leschetizky espose alcuni astuti espedienti da adottare in questi casi, fra cui rivolgersi al pubblico con aria seccata, lamentandosi che una nota suonava scandalosamente stonata, e poi lasciare il palco chiedendo che fosse chiamato un accordatore. Il pianista poteva quindi consultare surrettiziamente lo spartito nel suo camerino, mentre l'accordatore si occupava della nota incriminata.
Von Bülow, con il suo consueto dogmatismo, dichiarava seccamente che nessuno poteva dirsi un artista se non conosceva perfettamente a memoria almeno duecento pezzi. Il modo in cui fosse arrivato a questo numero magico non è riportato da alcuna fonte. [...] Alcuni disegni di Liszt in concerto lo mostrano chiaramente con uno spartito davanti a sé, per quanto suonasse molti pezzi del suo repertorio principale senza musica. Un articolo sul «Wiener Zeitschrift für Kunst» del 5 maggio 1838 mostrava un rispetto reverenziale per la sua «sorprendente memoria, che gli permette di suonare diverse centinaia di pezzi», ma poiché il servizio fu scritto (con uno pseudonimo) da uno degli editori viennesi di Liszt, Pietro Mechetti, e poiché il musicista non aveva certo suonato centinaia di pezzi (circa venti, in effetti) nei quattro concerti viennesi che aveva dato prima dell'encomio di Mechetti, si può ragionevolmente sospettare che si stesse alquanto esagerando. Tutto ciò faceva parte della fi orente leggenda lisztiana.
In effetti Liszt aveva suonato a memoria il Concerto "Imperatore" di Beethoven (uno dei non molti concerti per pianoforte e orchestra del suo repertorio) talmente spesso che il critico J.W. Davison sottolineò quanto fosse insolito che tenesse lo spartito davanti a sé durante l'esibizione del 1845, in occasione delle commemorazioni beethoveniane a Bonn. Ma quando Davison iniziò a riflettere su tutte le difficoltà che Liszt aveva dovuto affrontare durante l'organizzazione dell'evento, trovò notevole che fosse addirittura riuscito a suonare. In occasione dei recital berlinesi di Liszt nel 1841-42, il musicista eseguì senza spartito più di metà dei pezzi (che in totale erano poche dozzine): siamo ben lontani dal livello che ci si aspetta oggi da un pianista, e la meraviglia espressa da alcuni biografi non era certo meritata, ma l'esibizione fu sufficiente a stupire il pubblico. Il fatto che, durante un concerto del 1840 ad Amburgo, Liszt suonasse a memoria la Sonata "Al chiaro di luna" di Beethoven fra i bis richiesti dal pubblico fu acclamato dai giornali come un'impresa eccezionale.
Nel 1874, molto tempo dopo il suo "ritiro" ufficiale dal palco, Liszt prese parte a un concerto di benefi cenza a Vienna, nel quale suonò la sua Fantasia ungherese per pianoforte e orchestra e la sua trascrizione della Fantasia "Wanderer" di Schubert per il medesimo organico. Com'era tipico di Liszt, il fatto che in alcuni momenti guardasse lo spartito e in altri ne facesse a meno, e perfino la sua leggera miopia divennero parte dello spettacolo. Osservò Hanslick: «Non solo si ascolta la sua interpretazione con il fiato sospeso, ma se ne osservano i riflessi nelle linee eleganti del suo volto. La testa, buttata all'indietro, fa pensare a Giove. A volte gli occhi lampeggiano sotto le sopracciglia prominenti; altre volte gli angoli della bocca, normalmente all'insù, si sollevano ulteriormente in un lieve sorriso. La testa, gli occhi, e a volte anche la mano mantengono una comunicazione costante con l'orchestra e il pubblico. A volte suona guardando lo spartito, altre volte a memoria, mettendo e togliendo gli occhiali di conseguenza. In altri momenti la testa è piegata attentamente in avanti, in altri momenti è buttata baldanzosamente all'indietro. Tutto questo esercita un grandissimo fascino sugli ascoltatori, soprattutto sul pubblico femminile».
Ma Liszt era Liszt, e non ci si aspettava che si conformasse alla spinta crescente verso la memorizzazione, che nel 1874 stava già progressivamente prendendo piede. Nel 1878 il «Musical Times» poteva ancora descrivere un'esecuzione a memoria delle Variazioni su un tema di Händel di Brahms come un'«impresa eccezionale», aggiungendo che «simili sforzi mentali, in realtà, non sono più così rari tra gli interpreti, ma finora non mancano di apparire sorprendenti quando vengono esibiti».