Debussy, il musicista che dipingeva la musica

Musica

Debussy, il musicista che dipingeva la musica

«Ma Debussy fu il primo: dopo di lui nessuno l'ha più fatto con uguale abilità, o con risultati di simile bellezza».

 

A nessun compositore moderno riuscì come a Claude Debussy il miracolo di innovare dalle fondamenta il linguaggio musicale della propria epoca senza alienarsi il favore del pubblico. Pur dedicandosi anche alla critica e alla direzione d'orchestra, e non mancando di coltivare svariate relazioni sentimentali, la fedeltà all'arte di Debussy fu assoluta, e trovò il suo fondamento in due concetti irrinunciabili: la bellezza e l'esattezza di espressione.
Uomo dalla spiccata personalità, Debussy già all'età di dieci anni si fece notare conquistando l'ingresso al Conservatorio di Parigi: nei primi 33 di 157 candidati. I suoi insegnanti ne correggevano le originalità armoniche e contrappuntistiche, ma ne ammiravano contemporaneamente l'ardimento, nonostante l'indole poco incline all'accettazione delle regole. E altrettanto conflittuale fu il suo rapporto con l'altra grande 'influenza' dell'epoca: la musica di Richard Wagner. Debussy, come gran parte dei suoi contemporanei, la studiò con profondo interesse, recandosi anche a Bayreuth per farla propria; non smisa mai di cercarvi innovazioni tecniche e formali che fossero funzionali alla propria personale ricerca. Ne respinse con forza però lo spirito magniloquente, la retorica drammaturgica e il pesante nazionalismo, virando verso ben altri mondi sonori e testuali. E poi la fascinazione per il barbarismo e per la musica dell'Estremo Oriente, in particolare per il gamelan giavanese e le sue armonie così sospese, in cui "tonica e dominante non erano più altro che vani fantasmi da spaventare i bambini cattivi".
Più a suo agio con i pittori e i poeti che con i colleghi musicisti, Debussy seppe far maturare la propria rivolta verso i principi accademici in un linguaggio modernista a tratti imparentato con il simbolismo e l'esotismo. Fu proprio questa affinità, insieme ad altre circostanze biografiche, ad alimentare un acceso e oggi in buona parte superato dibattito sulla qualità "impressionistica" della sua musica.
In questo libro, Stephen Walsh, uno dei più acuti e rispettati critici e storici della musica della scena inglese, intesse con grande abilità la biografia e l'opera del compositore, per raccontare un'altra storia. Quella di un Debussy "pittore dei suoni" non tanto per le qualità immaginifiche della sua opera o per la vicinanza alle atmosfere degli impressionisti, quanto per il modo in cui lavora ai suoi soggetti, ai loro sviluppi e alle loro cornici, creando la forma musicale dalla sua pura necessità interna, senza curarsi di una sintassi o di una tecnica narrativa preconfezionata, classica o wagneriana che sia.
Ne nasce un appassionante e inconsueto ritratto dell'uomo e dell'artista, fatto di documenti, analisi musicali e spunti critici intessuti con abilità in un grande racconto biografico. Perché, nelle parole di Walsh, è difficile immaginare gioia più grande di quella che può procurare occuparsi di Debussy, dalle sua vita e della sua meravigliosa opera.

Stephen Walsh è professore emerito presso la Scuola di Musica dell'Università di Cardiff. Avendo cominciato a scrivere come freelance per il Times, il Daily Telegraph e il Financial Times, ha assunto nel 1966 l'incarico di critico musicale per l'Observer; oggi accosta all'insegnamento universitario la collaborazione con l'Independent. 

Un estratto

La pratica di uno strumento musicale, come quella della matematica e degli scacchi, è un’attività propizia all’emersione di talenti precoci in luoghi e momenti inattesi, talenti all’altezza dei migliori fra gli adulti (molti dei quali, prodigi a loro volta nell’infanzia). Appare tuttavia quasi incredibile che Achille, dopo appena due anni di lezioni, fosse già un virtuoso tascabile di quel calibro. Gabriel Pierné, suo coetaneo nella classe di pianoforte, aveva cominciato al Conservatorio di Metz a cinque anni. Achille doveva certo essere stato già disinvolto alla tastiera, ma i suoi primi insegnanti al Conservatorio, Antoine Marmontel e il suo assistente Alphonse Duvernoy, in lui colsero qualche altro aspetto. Quest’ultimo fu colpito dal tocco, dalla qualità sonora manifestata del ragazzo, e tanto lui quanto il docente presero nota della sua intelligenza. Al secondo anno Marmontel ne osservò il «genuino temperamento artistico»: intendeva senz’altro dire che Achille, più che suonare come un bambino molto dotato, era piuttosto in grado di percepire nella musica qualità più sottili e che eseguendola sapeva farle emergere.
Oltre al pianoforte, il Conservatorio richiedeva lo studio di quello che i francesi chiamano solfège: teoria e discipline pratiche quali la lettura a prima vista e lo sviluppo dell’orecchio musicale, compreso il dettato. È probabile che tutto ciò fosse una novità per Achille, che all’inizio fece fatica soprattutto con la teoria: è un’insegnamento di natura arida, che adopera una terminologia strana, ed è l’ultimo aspetto che viene in mente a chiunque abbia una certa inclinazione naturale alla musica, quando pensa a quest’ultima. Gli riusciva invece facile la lettura a prima vista, e anche del dettato s’impadronì presto, visto che, per chi sia in possesso di un buon orecchio, non si tratta d’altro che di una lettura al contrario. Ben presto fu chiaro che, mentre l’orecchio era per Achille un dono del cielo, lo studio della teoria gli richiedeva sforzo, e con il tempo fu questo a piantare in lui i semi della ribellione.
Fino a quel punto, nell’educazione di Achille nulla gli aveva fatto mai sospettare il valore di una disciplina pratica o perfino morale. L’istruzione elementare gli era stata impartita dalla madre, donna solerte ma non particolarmente energica, affettuosa o istruita; suo padre era un uomo incostante, impratico e per un certo periodo era anche stato in prigione; la sua unica vera guida nella musica era stata un’insegnante di valore ma alquanto bohémienne. A quanto pare, il ragazzo capì come disciplinarsi da sé per ottenere ciò che gli sembrava valere lo sforzo, ma, in materie che non lo interessavano, si dimostrò impaziente verso le imposizioni.
A questo riguardo, per qualcuno del suo retroterra e del suo temperamento non poteva darsi ambiente peggiore del Conservatorio di Parigi. Tutta la sua struttura pedagogica si fondava su una tradizione e un riciclaggio di principi che alcuni teorici, alcuni di notevole antichità, avevano tratto dalla musica del passato, principi a cui i compositori stessi di quella musica non avevano aderito, ammesso poi che ne avessero conosciuto l’esistenza. Per esempio, lo studio del contrappunto (composizione in due o più voci indipendenti) era basato su un sistema che Johann Joseph Fux, compositore tedesco del Settecento, aveva desunto dalla musica di Palestrina, il quale sarebbe di sicuro rimasto di stucco nell’apprendere che il suo stile poteva ridursi a sì e no una decina di semplici regole. Lo studio dell’armonia era fondato su una serie di norme grammaticali che regolavano la progressione e la successione degli accordi rimaste essenzialmente immutate dall’epoca di Bach; la forma era quella di una tradizione classica tramandata come i dieci comandamenti dal Monte Sinai. Questi medesimi principi, per di più, governavano anche l’insegnamento della composizione vera e propria, anche se avrebbero dovuto passare ancora parecchi anni prima che Achille dovesse affrontare in quella versione la mentalità pedagogica del Conservatorio.
La cosa strana era che quest’approccio fossilizzato allo studio dell’arte era poi messo in pratica da un corpo insegnante di uomini di eccezionale valore e per la massima parte di buon cuore, che comprendeva addirittura un paio di compositori di genio. Quando Achille entrò in Conservatorio, Ambroise Thomas, il compositore di Mignon, aveva da poco sostituito come direttore Daniel Auber (Fra Diavolo, La Muette de Portici) e César Franck era appena stato nominato professore d’organo; qualche anno dopo Jules Massenet, che avrebbe scritto Manon e Werther, sarebbe arrivato a insegnare composizione. Achille ebbe insegnanti meno illustri, figure di rinomanza puramente locale, come appunto Martmontel, che era stato maestro di Georges Bizet e di Vincent d’Indy, ed Ernest Guiraud, autore dei recitativi, un tempo famosi, che avevano sostituito i dialoghi parlati nella Carmen di Bizet; e poi c’erano degli accademici puri, come il suo primo maestro di solfège, Albert Lavignac, e il suo successore, Émile Durand.
Verrebbe da pensare che uomini di quello stampo avessero poca pazienza con uno scolaro indipendente e poco disciplinato come il giovane Achille: invece riconobbero fin dall’inizio il suo talento fuori dal comune, arrivando a esprimersi con quella che potremmo definire un’ammirazione non ufficiale per alcune delle sue devianze musicali. Nel corso di Durand, per esempio, i suoi esercizi di armonia potevano risultare costellati di infrazioni, che possiamo immaginare intenzionali, alle regole più basilari; Achille, poi, «conclusa le lezione si divertiva a sedersi al pianoforte e a produrre successioni mostruose di accordi inauditi e barbari; accordi, cioè, non contemplati nei trattati ufficiali del Conservatorio»6. Correggendo i compiti di Achille, Durand andava in bestia e copriva la pagina di rabbiosi segnacci; poi rileggeva e diceva: «Certo, non sono soluzioni ortodosse, ma sono molto ingegnose».