Il potere della narrazione: L'ultima ferita
Un romanzo sul grande potere della narrazione, che sa aprire, e poi guarire, anche la più profonda delle ferite.
Maya, un’inquieta ragazza parigina, si trasferisce dai nonni nel villaggio di Barneville, in Normandia: lì lo smartphone non prende, non c’è molto da fare e tutto sembra appartenere ad un altro mondo; eppure la ragazza si adatta subito a quella nuova vita semplice e sincera, fatta di lentezza e di profondità. Un giorno il nonno, falegname romantico ed enigmatico, la porta con sé da una misteriosa guaritrice; durante lo strano rito orchestrato dalla donna, un paio di forbici schizza fuori controllo e ferisce un’incredula Maya appena sotto l’occhio.
La ragazza non lo sa ancora, ma quella ferita le cambierà la vita. Dopo la morte del nonno, infatti, ogni volta che Maya si punge o si taglia – a scuola, a casa, con quelle stesse forbici di cui entra in possesso o con oggetti diversi – il mondo intorno cambia improvvisamente, catapultandola nel 1600 all’epoca di Marie Catherine D’Aulnoy, prima autrice francese di fiabe. Rifugiarsi in quella vita speciale è l’antidoto al sentirsi fuori posto, ma viaggiare avanti e indietro nel tempo non sarà un’esperienza priva di conseguenze...
Il nuovo romanzo di Simone Saccucci vira verso il fantastico. Dopo La seconda avventura e La nota che mancava, l’autore attinge al mondo della fiaba per dichiarare il suo amore smisurato verso la narrazione e le sue potenzialità. È grazie alle storie, e all’universo che costruiscono intorno a chi le sa ascoltare, che Maya si alleggerisce dal peso di una realtà in cui fa tanta fatica a ritrovarsi: le rocambolesche vicende di Marie Catherine D’Aulnoy, la sua determinazione e la sua fantasia, le danno quel brivido che non riesce a trovare nella quotidianità. La meraviglia e l’entusiasmo dell’avventura sono però solo una parte della fascinazione che quel mondo esercita su di lei. Lì, in quel tempo scaturito dalla magia della fiaba, può finalmente essere sé stessa, sentirsi parte di qualcosa di vero, persino innamorarsi con sincerità: una vita concreta e reale, nonostante si svolga in un mondo di fantasia.
Il potere delle storie è quello che ammalia la protagonista, ma che anche la rapisce: tornare dal viaggio alla realtà e viceversa è sempre più doloroso per Maya, disposta a tutto pur di non perdere la passione che abita fantasia e narrazione. I viaggi della protagonista tra presente e passato le danno quel brivido che la quotidianità non riesce a trasmetterle, è per questo che la ragazza cerca di riviverli con sempre più insistenza; non solo: saranno quelle avventure a possederla, rendendola una cantastorie in prima persona. Una volta provata quell’intensità nulla per lei sarà più come prima.
L’ultima ferita è anche la prima di una nuova esistenza: il viaggio della narrazione, per Maya come per il lettore, non è concluso ma appena cominciato.
Simone Saccucci, (1979), cantastorie, narratore, educatore. Attraverso la parola, la musica e il canto, conduce in tutta Italia seminari e laboratori per futuri educatori e insegnanti, e viene spesso chiamato per agire sul disagio nelle scuole, nei territori o nelle famiglie. Il suo strumento è la narrazione orale mischiata al bagaglio educativo che ha arricchito nel corso di oltre 15 anni di lavoro sul campo. Ma più di ogni altra cosa Simone racconta e ascolta storie, godendo della magia che questo atto antico accende nelle persone. L’ultima ferita è il suo terzo romanzo.
L’affetto e l’amore non esistono. Sono delle invenzioni. Fin quando ci credi fila tutto liscio ma se smetti di creder- ci? Quando stavo a Parigi, questa domanda me la facevo spesso. E più me la ponevo, più l’affetto e l’amore sparivano per davvero.
Sapevo di voler bene ai miei genitori, a Carl o a Catherine, ma non provavo nulla se mi fermavo a riflettere. E più riflettevo, più sprofondavo in un abisso gigante.
Quando ci trasferimmo a Barneville mi sentivo così vuota che, anche adesso, a distanza di molto tempo, mi spaventa riportare a galla quella sensazione, perché so che basta un attimo per tornare come ero allora.
E basta un attimo a qualunque età.
Parlavo, ma non avevo voglia di parlare.
Facevo, ma senza nessuna voglia di fare.
In realtà non mi era successo nulla di grave. A un certo
punto avevo iniziato a sentirmi così, senza spiegazione. Tutto normale. Tutto come sempre, più o meno. Ma
dentro...
Dentro stavo come stavo.
Papà ci disse che per via del lavoro ci saremmo dovuti trasferire in un villaggio sperduto della Normandia e io mi sentii sollevata.
Finalmente potevo lasciarmi alle spalle quella città.
A Barneville andammo a vivere nella casa dei nonni. Loro erano lì da sempre. Ricordo che da bambina ci passavo tutte le estati ma poi all’improvviso i miei hanno cominciato a non andarci più e così quando ci trasferimmo per un po’ da loro, in attesa che papà e mamma prendessero una nuova casa per noi, all’inizio non riuscivo tanto ad ambientarmi.
La casa era spaziosa e accogliente. Intorno c’era la campagna, qualche altra casa sparsa qua e là, e il bosco. Un bosco grosso.
Il nonno passava tutto il giorno nel suo laboratorio. Era una falegnameria.
La nonna curava i suoi fiori oppure se ne stava tra i fornelli e per sciogliere quella timidezza che avevo mi invitava a prendere il tè.
Ognuno poteva starsene lontano dagli altri, tanto era grande quella casa.
All’inizio ne approfittai: mi rintanavo in qualche angolo, arrabbiandomi con il cellulare perché prendeva pochissimo.
Poi una mattina il nonno mi disse di aver lasciato un tronco di betulla proprio all’inizio del sentiero che attraversando il bosco arrivava all’oceano.
C’ero già stata. Mi ero fatta delle passeggiate in solitaria.
«Maya» mi chiese «me lo vai a prendere tu per favore? Lo riconosci subito. Ha un nastro rosso legato intorno».