Là dove Bulgaria, Grecia e Turchia convergono e divergono: Confine

Saggi e narrazioni

Là dove Bulgaria, Grecia e Turchia convergono e divergono: Confine

«Un confine strettamente sorvegliato è sempre aggressivo: è il luogo in cui all’improvviso il potere si incarna, oltre che in un’ideologia, in un corpo umano, se non addirittura in un volto».

 

Kapka Kassabova è una scrittrice di origine bulgara naturalizzata inglese, riconosciuta come una delle più interessanti e apprezzate scrittrici di lingua inglese delle ultime generazioni. Il suo ultimo libro, tradotto in diverse lingue e vincitore di numerosi premi letterari internazionali, è il racconto di un viaggio nei luoghi della sua infanzia – il confine fra Bulgaria, Turchia e Grecia considerato la porta di accesso all’Europa dai Paesi del blocco sovietico – e al tempo stesso un’immersione nel cuore più tenebroso della storia europea.
Quando la Kassabova era bambina, quel confine era una via di fuga dal blocco di Varsavia migliore rispetto al Muro di Berlino, e così i suoi boschi e le sue montagne erano affollati di militari, spie e fuggiaschi. Kapka ricorda di avere giocato, nelle sue vacanze sul Mar Nero, sulla spiaggia a pochi chilometri dall’imponente barriera elettrificata il cui filo spinato puntava minacciosamente verso l’interno. Oggi questo paesaggio denso di foreste non è più altrettanto militarizzato, ma è ancora un sentiero battuto dai profughi di tragedie lontane, e porta ben visibili le sue molte cicatrici. È qui, in quelli che vengono chiamati i Balcani sud-occidentali, che Kassabova intraprende un viaggio verso le proprie radici e al tempo stesso verso il cuore di un passato secolare fitto di misteri, di sofferenza e di insopprimibile umanità. Scopre una regione plasmata da una successione di violente forze della storia: dalle molte crisi migratorie, dal comunismo, da due guerre mondiali, dall’Impero Ottomano e, prima ancora, da un’ancestrale eredità di miti e di leggende. In un paesaggio dominato da una natura selvaggia, disseminata delle enigmatiche tracce di vicende remote, Kassabova incontra guardie di confine e cercatori di tesori, imprenditori e botanici, guaritori e adepti di riti magici, rifugiati e contrabbandieri: il popolo del confine, un mondo brulicante di storie, di aspettative, di credenze e di conflitti, pervaso da una peculiare energia psichica che sembra scaturire dalla natura stessa.
È attraverso i loro racconti che, in una narrazione straordinariamente sensibile e densa di presagi, ritraccia i confini fisici e mentali che si intrecciano fra le montagne e i villaggi di questo angolo estremo d’Europa, alla ricerca del suo segreto profondo. Consapevole del fatto che “la foresta sul confine è il luogo in cui, se indugiamo troppo, il destino si manifesta”.

La pubblicazione del volume porterà l’autrice in Italia per un giro di incontri e presentazioni, a Torino (15 novembre), Milano (17 novembre), Roma (18 novembre) e Trieste (19 novembre).

 

«Il mio viaggio nasca da un impulso emotivo piuttosto naturale: volevo vedere i luoghi proibiti della mia infanzia, i paesi e le città di confine un tempo militarizzati, i fiumi e le foreste a cui l’accesso è stato vietato per due generazioni.»

Un estratto

>Il Villaggio della valle si trovava alla fine della strada. Vi si accedeva attraverso una foresta mista, la più vecchia riserva protetta dei Balcani. Nella luce verde del bosco apparivano e scomparivano i musetti dei cervi, mentre i picchi battevano i loro messaggi in codice.
Affittai una casa a due piani nell’ultima strada, costruita poco tempo prima da persone che vivevano altrove. Le due abitazioni accanto erano abbandonate, e gli orti fitti di alberi da frutto inselvatichiti lasciavano cadere pere dorate nel mio giardino. Al mattino una tartaruga attraversava il prato e all’imbrunire tornava indietro. Le case abbandonate risalivano a tre secoli prima, erano rivestite di legno e dotate di una curiosa tegola amovibile sul tetto per lasciar passare la luce, o forse per spiare i vicini.
Fino agli Novanta qui vivevano 2000 anime, mentre ormai si era scesi a 200. La scuola se ne stava lì vuota e con le finestre rotte, come del resto la panetteria, l’emporio e gli edifici militari. Due volte all’anno il fiume esondava e allagava le sue anse e il villaggio, e fino al xx secolo gli abitanti avevano tenuto viva una tradizione risalente all’antico Egitto: ne raccoglievano il fertile sedimento con degli aggeggi fatti di rami intrecciati e assicurati ai noci che costeggiavano le sponde. Gli alberi erano ancora lì, carichi di amari frutti acerbi.
Il villaggio prendeva il nome dal mercante greco che lo aveva fondato, perché questa era stata una comunità di lingua greca fino alle Guerre balcaniche, quando milioni di persone avevano perso la madrepatria o peggio, ottenendo in cambio una casa vuota in un paese straniero con le pentole in cucina ancora calde. Nella malinconica giostra denominata “scambio di popolazioni”, gli abitanti dei paesi di lingua greca vicini al Mar Nero come questo si erano spostati nei villaggi della zona di Salonicco e al loro posto erano arrivati dalla Turchia i profughi bulgari. I musulmani di entrambi i paesi erano stati espulsi e mandati a loro volta in Turchia. Questa catastrofe civile è stata soltanto una tra le molte nella lunga trenodia dell’Impero ottomano.
Una straordinaria chiesa ortodossa, dedicata ai santi patroni locali Elena e Costantino, segnava l’orizzonte del villaggio con il suo campanile di legno. Le icone erano rimaste intatte sin da quando, cent’anni prima, i greci se n’erano andati, lasciando un involontario dono ai nuovi arrivati bulgari. Poco tempo dopo la chiesa aveva preso fuoco. Gli abitanti erano rimasti a guardare, poi a un certo punto udirono delle grida umane e perciò si gettarono tra le fiamme, ma non c’era nessuno: erano le icone a urlare.
Oltre la via in cui abitavo c’erano soltanto vecchie mulattiere e colline boscose, fino alla Turchia. Durante la notte gli sciacalli arrivavano ai margini del villaggio e ululavano, e i cani del paese replicavano abbaiando in una specie di orchestra infernale. Dato che non riuscivo a dormire, mi sedevo sul balcone e seguivo quegli occhi gialli sul limitare della foresta. La casa era piena di calabroni grandi come passeri, e io li spiaccicavo con dei libri russi dalla copertina rigida presi dagli scaffali, perché la puntura di un calabrone può anche ucciderti, diceva la gente. Guerra e pace si rivelò perfetto.
Il mio vicino più prossimo dall’altra parte della strada era un ex campione di pallacanestro molto alto. Aveva perso la moglie e il figlio e trascorreva le estati qui, nella vecchia casa di famiglia, anche se il suo giardino aveva un’aria derelitta come tutto il resto. Quando mi vide si illuminò:
«Anche lei innamorata dello Strandža?».
Non aspettò la risposta.
«Vedrà. Rimanga per un’altra settimana e non riuscirà più ad andarsene. Oppure se ne andrà e poi le verrà nostalgia. È così che fa questa montagna».
Risi troppo presto.