#ioriparto: Bill Streever – Riprendere il mare
Questi tempi di pandemia sono stati clementi con mia moglie e con me. Dovrei essere loro grato, ma vorrei tanto vedere il mondo ripartire, sentire i bambini che giocano, vedere famiglie e amici per le strade e ai tavolini dei ristoranti, assistere alla ripresa degli affari. Da parte mia, sono pronto a riprendere il mare, ad alzare le nostre vele e a fare prua verso nord-ovest, verso il Mare di Cortez.
Mi spiego. Viviamo a bordo della nostra barca a vela da crociera Rocinante, vecchia di 55 anni. Lo scorso novembre siamo salpati da Cartagena, in Colombia, siamo passati attraverso il Canale di Panama, e veleggiavamo felicemente, anche se con lentezza, alla volta del Mare di Cortez, con l’obiettivo di superare la zona degli uragani prima della stagione più pericolosa. Ma i nostri progetti, come quelli di altri miliardi di persone – come i progetti di praticamente tutto il genere umano – sono cambiati in maniera abbastanza brusca.
Ma abbastanza brusca non vuol dire fulminea.
Prima abbiamo cominciato a leggere qua e là notizie di un nuovo e strano virus in Cina. Poi abbiamo visto i servizi sull’arrivo dell’epidemia in Europa e quindi negli Stati Uniti.
In quei giorni eravamo più concentrati sulle previsioni del tempo, sui lavori di manutenzione che inevitabilmente un viaggio in barca a vela comporta, sul rifornirci di provviste e di acqua navigando fra isole remote, sul rapporto con nuove culture e nuovi paesaggi naturali, sull’avvistamento di animali per noi del tutto nuovi.
Se penso alle malattie che ci potevano creare preoccupazione, penso alla dengue o alla malaria. Il Corona-virus sembrava così lontano.
Ma contemporaneamente alle notizie giornalistiche, circolavano le notizie non ufficiali, via internet o di barca in barca.
E poi hanno cominciato a chiudere i porti e i confini degli stati. Per nostra fortuna lasciammo la Costa Rica poco prima che le porte fossero sbattute. Dietro di noi, alcuni amici sono rimasti bloccati a Panama, restando improvvisamente prigionieri della loro piccola barca.
Abbiamo passato due settimane in Nicaragua. Lì la vita procedeva più o meno inalterata. Ma continuando a risalire la costa, abbiamo navigato ben al largo da El Salvador e Honduras, entrambi ormai proibiti ai velisti di passaggio.
Arrivati in Messico dopo una traversata di tre giorni, ci siamo fermati in Chiapas, vicino alla frontiera, e abbiamo pernottato in un porticciolo locale, socialmente distanziati alla fine di un lungo molo deserto. Il Messico era rimasto in gran parte aperto. Il presidente parlava della protezione che Dio avrebbe esercitato sul suo popolo e dell’impatto insostenibile della chiusura sull’economia. In un Paese in cui sono così tante le persone che lavorano oggi per comprare il cibo di domani, fermare l’economia sarebbe stato a suo avviso impensabile.
Come sempre i messicani furono amichevoli e accoglienti. Ma anche loro erano preoccupati. E a dispetto della fiducia del loro presidente e del suo desiderio di andare avanti come se nulla fosse, cominciammo a sentire di porti chiusi, di barche respinte nonostante la necessità di cibo e di carburante. Di un crescente numero di contagiati, e di morti sempre più numerose in prossimità del confine con gli Stati Uniti, a Città del Messico e nello Yucatan.
Alla fine le attività economiche cominciarono a fermarsi, volontariamente o a causa di nuovi regolamenti locali. Abbiamo visto foto di affiliati ai cartelli della droga fornire cibo e generi di prima necessità in grandi scatoloni marchiati dai simboli dell’organizzazione criminale. Circolavano voci su rivolte di piazza.
Noi non stavamo affatto male, nascosti nel nostro piccolo porto vicino a una base della marina militare; dividevamo il nostro tempo fra i lavori di manutenzione della barca, il birdwatching e un po’ di esercizio fisico. Vedevamo altre barche arrivare e attraccare, i loro proprietari e gli equipaggi esporsi al pericolo di aeroporti e hotel per raggiungere quella che ai loro occhi doveva sembrare la sicurezza della loro casa, quando ormai, in realtà, il mondo intero non aveva più luoghi sicuri da offrire. Ma abbiamo visto anche altri comandanti ed equipaggi decidere di continuare la traversata, di rimettersi in mare, impazienti, come noi, come tanta altra gente, di essere altrove.
Abbiamo assistito con orrore alle chiusure, al diffondersi della pandemia e alle morti in Spagna e in Italia, in Olanda e in Malesia, negli Stati Uniti e in tutti gli altri posti in cui abbiamo amici e familiari, e abbiamo cominciato a provare un crescente senso di inutilità e di colpa. Che cosa siamo venuti a fare, qui, annoiati ma contenti, mentre tante altre persone hanno visto la loro esistenza gettata nel caos, gli affari o le carriere costruite con tanta fatica cadere a pezzi? E i tanti malati? E quelli che sono morti?
Eppure, sappiamo tutti che il mondo ripartirà.
Per tutti noi la transizione sarà lenta e piena di incertezze. Ci saranno battute d’arresto. Dovremo affrontare sfide inaspettate. L’assalto quotidiano delle notizie e delle voci contraddittorie continuerà a lungo. Ma la civiltà resterà in piedi, e la vita continuerà il suo corso.
Si avvicina dunque il tempo di riprendere il mare.
Per noi vorrà dire letteralmente salpare. Fare vela lungo lo stretto canale che porta via da questo porticciolo, di nuovo verso l’Oceano Pacifico. Prepararsi a fronteggiare non solo i capricci del tempo ma anche quelli del virus e della sua persistente scia. Già da questa settimana abbiamo cominciato a controllare i bollettini meteorologici e a preparare la nostra barca per una traversata di 1500 miglia. È quasi arrivato il momento di fare quello che abbiamo fatto negli ultimi anni e che ci auguriamo di poter continuare a fare finché non saremo troppo vecchi per maneggiare le vele. È quasi il momento di passare oltre, di tornare a cercare i venti favorevoli per navigare lungo ciò che resta delle nostre vite, sorridendo tutte le volte che è possibile, cercando l’ottimismo, spingendo l’ansia fuoribordo.
Joshua Slocum, il primo uomo a circumnavigare il mondo in solitaria nel 1898, scrisse: “un’impetuosa speranza dominava le mie paure”. Confinati a casa o in mare, è arrivato il tempo di fare nostre queste parole.
Bill Streever, biologo, ha vissuto nel sud della Cina, nel Maine, in Australia, sulle coste del Golfo del Messico e ad Anchorage, nel nord dell’Alaska. Oggi, insieme a sua moglie, la biologa marina Lisanne Aerts, vive a bordo di una barca da crociera a vela, il Rocinante – dal nome del cavallo di Don Chisciotte. È autore di numerosi libri di divulgazione scientifica pubblicati in tutto il mondo, fra cui Gelo. Avventure nei luoghi più freddi del mondo (2013), Calore. Avventure nei luoghi più infuocati del mondo (2015) e Leggere il vento. La lunga lotta per comprendere una forza della natura (2018). Nel 2021 EDT pubblicherà la traduzione anche del suo nuovo libro, dedicato alle profondità degli abissi: In Oceans Deep. Courage, Innovation, and Adventure Beneath the Waves (Little, Brown & Co., 2019)
#ioriparto
È difficile sapere che cosa i giorni strani e durissimi della quarantena hanno depositato dentro di noi, ma prima o poi dovremo riprendere il controllo delle nostre vite, e non sarà facile. È così che in EDT abbiamo pensato di dedicare uno spazio all’idea di ripartenza. Abbiamo chiesto agli autori e agli amici della casa editrice uno spunto che possa essere di ispirazione in questo complicato frangente. Sono voci da tutto il mondo e ci proporranno un concetto, un ricordo, un libro, un brano musicale: il loro punto di ripartenza personale, una fonte a cui attingere l’energia di cui ora avremo bisogno, all'insegna del motto #ioriparto.