La recensione di Dario Voltolini
Da Tutto Libri del 29 novembre 2008
Scomparso all'età di 63 anni pochi mesi dopo l'uscita del suo ultimo libro Nel cuore della foresta, Roger Deakin è stato uno scrittore molto particolare. Poche le pagine scritte, grande l'esperienza in esse trasfusa. In un libro non ancora tradotto in Italia, Waterlog (1999), Deakin narrava le proprie nuotate attraverso le acque delle sue amate isole britanniche: stagni, fiumi, acquitrini, laghi. Guadagnava, così facendo (ispirato dal Nuotatore di Cheever ma non operando certo in piscine), quello da lui stesso chiamato «il punto di vista della rana» sul mondo e sulla natura.
In Wildwood (titolo originale, 2007) Deakin si rituffa nell' ambiente naturale,ma questa volta si tratta di un oceano di legno, il quinto elemento secondo il pensiero tradizionale cinese, ovvero nelle foreste, non solo britanniche. Giova alla sensibilità del Deakin scrittore la sua precoce familiarità con il mondo della natura: fin da bambino osservava, censiva, schizzava e registrava come un vero e proprio naturalista gli individui viventi nel bosco, sia animali sia vegetali. Nel 1968 acquistò il rudere elisabettiano di una fattoria nel Suffolk, che restaurò e in cui visse fino alla fine. Nel 1982 fondò, con Sue Clifford e Angela King l'associazione ambientalista Common Ground, fu autore radiofonico e regista, e molto altro.
Così come aveva guadagnato il punto di vista della rana in Waterlog, qui nelle foreste guadagna quello del coniglio. Nascosto fra l'erba, zigzagante nel folto, attento, immobile ma pronto a scattare, certo quello di Deakin sembra veramente l'angolo visuale di un coniglio, o di una lepre di marzo, però la sua mimesi con la natura è tale che a ogni pagina noi lettori siamo invitati ad assumere punti di vista innumerevoli: quello della cornacchia, del tritone nascosto nella tubatura, della falena, del muschio, della campanula, del cervo, della singola foglia, della radice e del ragno che tesse la tela su tutto il prato.
Nella sua scrittura (di qualità singolarissima, elegante, più simile a un tappeto annodato che a un racconto), Deakin passa senza fine dal minimo particolare osservato all'aneddoto, dalla citazione letteraria al rilievo scientifico, dal quadro generale al compendio storico. È un grandissimo descrittore e un piacevole narratore, così che la stessa linfa che nutre le piante nutre la sua scrittura e, per una proprietà transitiva appannaggio solo dei grandi artisti o degli illuminati, nutre noi lettori.
Non è spiegabile questo fatto, ma è reale: di capoverso in capoverso ci si sente rinfrancati e tonificati, come se qualche balsamo inodore salisse dalla pagina (capita qualcosa di simile, ma assai più raramente, in qualche pagina di Il mio anno nella baia di nessuno, di Handke). In Deakin non c'è la presa di distanza dalla società di un Thoreau, per esempio (anche se l'autore di Walden è qui ben presente), e nemmeno la valenza allegorica del nostro Barone Rampante calviniano. Molto semplicemente troviamo un resoconto dettagliato della vita nelle sue forme boschive.
Ma sono proprio queste forme la meraviglia: tutta reale, tutta ancora raggiungibile, alla nostra portata. Non è stato un estremista della Wilderness, Deakin, come il protagonista del fortunato film di Sean Penn Into the Wild (tratto dal romanzo di Jon Krakauer). Semplicemente, ma giocandoci tutta la vita, è tornato nell'habitat da cui ci si è allontanati come specie e ce lo riracconta. Con ironia, i giaguari di cui si evoca la presenza in uno dei capitoli, sono in verità le Jaguar, automobili per l'arredo in legno delle quali la foresta torna ad essere chiamata in causa.
La costruzione di un capanno su un isolotto nel Tamigi è un capitolo meraviglioso, ritorna tutta l'avventura e l'intelligenza dell'uomo che abita la natura, e di capitoli così - belli in se stessi - qui ce ne sono davvero tanti, ma probabilmente l'anima del libro è più vasta, profonda e unitaria e va trovata negli ampi movimenti che portano Deakin, ad esempio, alla ricerca della mela originaria, fino al Kazakistan.
Infatti sembra di poter dire che la magia di questo libro è quella di farci rammemorare con gioia e tristezza ere ancestrali, in cui veramente la linfa vegetale e il sangue animale scorrevano insieme. Non è la memoria di letture quali il Robinson Crusoe e nemmeno quella delle avventure della colonizzazione e della civilizzazione (il mito della frontiera!) che questo libro fa rivivere in noi. È piuttosto una memoria arcaica, relativa a prima ancora di quando vivevamo nei boschi, direi che anzi è la memoria di quando eravamo noi stessi vegetali, noi stessi la mela che avremmo mangiato.
Dario Voltolini