Le radici nella sabbia
Sahel in arabo significa sponda, riva. Quella riva tanto agognata dai viaggiatori medioevali del Sahara, che attendevano di vedere comparire all’orizzonte il verde di Timbuctu o di Gao, per approdare alle città ricche e colte che popolavano i racconti di tanti mercanti e cronisti dell’epoca. Per quei viaggiatori il Sahel era la fine del viaggio, la fine della sete, il riposo, la sicurezza, la ricchezza, l’altra faccia del deserto.
Il rapidissimo avanzare delle sabbie, la siccità e i molti tornanti della storia hanno dato oggi alla parola Sahel tutt’altro significato. Il Sahel è una delle terre più aride del pianeta, il mondo degli ultimi, sempre in fondo alle statistiche impietose che mettono in evidenza il distacco tra ‘noi’ e ‘loro’. Eppure ciò che colpisce il viaggiatore è la ‘leggerezza’ delle popolazioni che ci vivono. Una leggerezza che si contrappone alla grevità della nostra società ricca, e che oggi più che mai rappresenta una lezione di adattamento e di strategie per la sopravvivenza.
È quello che racconta l’antropologo e scrittore Marco Aime in un lungo viaggio che da Bamako, la capitale del Mali, porta a Ouagadougou, in Burkina Faso, attraverso le piste sabbiose del deserto maliano, le acque limacciose del Niger, le strade dell’altopiano burkinabè. L’incontro con le moschee
di Djenné, la città sacra, le biblioteche di Timbuctu, sospesa tra lo splendore del mito e l’asprezza del presente, e poi Gao, i villaggi dogon, il mercato di Gorom-Gorom e la miniera d’oro di Markoy.