Pianoforte ancora di salvezza
Per Oscar Peterson (1925-2007) il pianoforte era un’ancora di salvezza, e lo rimase anche quando le sue condizioni di salute cominciarono a deteriorarsi. Nel corso di tutta la vita questo strumento era stato il suo compagno più fedele: aveva animato i suoi sogni di gioventù, gli aveva permesso di guadagnarsi un posto nei libri di storia, aveva confortato il suo cammino in un mondo di conflitti razziali.
Ora, a ottantun anni, Peterson appariva esausto. Quando era giunto fin sotto il palcoscenico del Birdland, a New York, su una sedia a rotelle (una serie di gravi colpi apoplettici gli aveva indebolito le gambe e parzialmente menomato la mano sinistra), era stato penoso vederlo faticare, grande e grosso com’era, per sistemarsi sullo sgabello del piano. Ma non appena la tastiera gli era stata a portata di mano, prima ancora che il suo torso avesse trovato una posizione sullo sgabello, aveva allungato il braccio destro e aveva afferrato una manciata di note; a quel segnale, bassista, batterista e chitarrista avevano attaccato il primo pezzo. E di colpo… quella sua sonorità. Era ancora intatta: una personalità musicale imponente, radicata nella tradizione ma riconoscibile, unica, inconfondibile.