Il castello sulla collina
La storia appassionante e scandalosa del più famoso fra gli hotel di Hollywood, lo Chateau Marmont, il luogo di fuga e al tempo stesso la vetrina scintillante di tutte le più celebri star del grande schermo, della musica e dei media fin dagli anni del cinema muto.
Costruito alla fine degli anni Venti, il Marmont, con la sua bizzarra architettura che ricorda i castelli della Loira, domina simbolicamente il Sunset Boulevard: un albergo fatto di appartamenti nei quali è possibile rinchiudersi per tagliare fuori il resto del mondo oppure organizzare le più leggendarie e interminabili feste.
I nomi delle celebrità che lo hanno frequentato o abitato sono tutti quelli che hanno segnato la storia dello spettacolo e della cultura pop dagli anni Trenta a oggi: Greta Garbo, Howard Hughes, Bette Davis, Marilyn Monroe, James Dean, Anthony Perkins, Jim Morrison, John Belushi (che in un bungalow di questo albergo morirà di overdose, dopo un festino durato tre giorni), Johnny Depp, Lindsay Lohan e moltissimi altri. Figure centrali della storia della musica jazz, rock e pop hanno vissuto e lavorato nelle sue stanze, da Duke Ellington a Miles Davis, dai Velvet Underground a Bono, così come i grandi artisti grafici, i fotografi, gli stilisti e i pubblicitari della West Coast.
Ma accanto alle divertenti o tragiche avventure degli ospiti più o meno celebri, la storia che Levy racconta fra queste pagine è anche quella dei tanti uomini e donne che hanno creduto nel suo mito o che vi hanno lavorato. Perché “quella dello Chateau Marmont è una storia fatta di investimenti e rischi, di fortuna sfacciata e cattiva sorte, di visionari e miopi, di capitalisti e lavoratori, di celebrità e mezze cartucce, di glorie in ascesa e glorie finite, di creativi e sibariti, di gente che ha dato e gente che ha arraffato. L’intero, secolare panorama umano americano di sognatori, affaristi e lottatori concentrato in poche centinaia di metri quadrati”.
Shawn Levy, scrittore, giornalista e critico cinematografico, ha all’attivo numerosi libri dedicati agli argomenti del cinema, della cultura pop e della controcultura, fra cui De Niro. A Life (2014) e Dolce Vita Confidential (2018). In italiano sono stati tradotti L’ultimo Playboy. La bella vita di Porfirio Rubirosa sciupafemmine di talento (2008) e Paul Newman. Una vita (2010).
Dal Capitolo I Il sogno (1927-1932)
Non c’è sempre stato bisogno di un satellite per scorgere i confini di Los Angeles. A metà degli anni Venti, se si partiva in automobile dal centro, si approdava nel giro di mezz’ora a un punto in cui finiva l’asfalto e iniziavano le mulattiere. Uno di questi posti si trovava all’incrocio tra Sunset Boulevard e la strada che si addentrava verso nord a Laurel Canyon. A quell’angolo le linee di autobus e di tram di Los Angeles facevano le ultime fermate prima di ritornare verso la città. A ovest, una mulattiera attraversava alcuni terreni agricoli – campi di cipolle, coltivazioni di poinsezie e boschetti di avocado – e raggiungeva il sobborgo di Beverly Hills, circa 3 chilometri più avanti in direzione del mare.
All’epoca a Los Angeles stava iniziando quell’impennata che nel corso del tempo l’avrebbe trasformata in una metropoli d’importanza mondiale. Tra il 1920 e il 1930 la città avrebbe più che raddoppiato la popolazione, e le nuove case venivano tirate su così in fretta che in porto attraccavano anche settantacinque navi al giorno, cariche di legname da costruzione proveniente dall’Oregon e dallo Stato di Washington. Ma guardando oltre, dove Sunset Boulevard si concludeva, c’erano ben pochi segni di conquista del territorio.
Nessuno sistemava la strada fra Los Angeles e Beverly Hills, perché non apparteneva né all’una né all’altra città. Quel tratto si trovava in una larga porzione non incorporata della Los Angeles County conosciuta come Sherman, o Shermantown, nome derivante da quello del magnate delle ferrovie “General” Moses Sherman, che, oltre ad aver costruito un imponente scalo merci fuori dai confini della città, aveva contribuito alla creazione del sistema tramviario di Los Angeles. Negli anni precedenti le aziende locali avevano battezzato quella fetta di territorio “West Hollywood” nella speranza di beneficiare di un po’ di polvere di stelle, avendo legato il proprio nome a quello del vicino quartiere di Los Angeles, già famoso a livello mondiale in quanto capitale del cinema.
Nell’autunno del 1926 Fred Horowitz, un avvocato del centro di Los Angeles che aveva iniziato a investire nel ramo immobiliare e in quello edilizio, andò a dare un’occhiata a una collina posta a ovest della strada che portava a Laurel Canyon. Verso est sorgeva Hollywood, la fiorente cittadella del cinema, dove si stagliava baldanzoso il Roosevelt Hotel, dodici piani ancora in costruzione e, al di là di quello, c’era lo skyline del centro di Los Angeles, da cui iniziavano a spuntare i trentadue piani del nuovo e maestoso palazzo municipale. A ovest sorgevano Beverly Hills e Westwood, dove si stava realizzando il nuovo campus della University of California, mentre alle sue spalle c’erano gli azzurri flutti del Pacifico e le Channel Islands, simili a nubi scure sulla sua superficie. A sud si dispiegava la scacchiera dei piccoli centri abitati che avrebbero un giorno formato l’area metropolitana di Los Angeles: Culver City, Venice, Inglewood, Crenshaw, Compton; erano punteggiati di villette, attività commerciali e fattorie, e attraversati da un reticolo di strade: Wilshire, Olympic, Beverly, Pico e Santa Monica Boulevard. Proprio come Horowitz si era augurato, da quell’altura il panorama era splendido.
Visibile soltanto a lui, invece, c’era un castello, uno château francese di mole, eleganza e nobiltà classiche, un edificio monumentale pensato per importare in questo mondo decisamente nuovo un po’ dell’atmosfera del Vecchio continente. Horowitz aveva in mente di costruire il condominio più lussuoso di tutta la California meridionale proprio nel punto in cui si trovava: un terreno invaso dalle erbacce lungo una strada sterrata.