Intervista a Ted Conover
Ogni viaggio sulla strada è potenzialmente una storia. Intervista a Ted Conover a cura di Sergio Bestente.
«Come saprà, per circa un anno ho lavorato nel carcere di massima sicurezza di Sing Sing. Non era un lavoro piacevole. È lì dentro che ho cominciato a sognare di scrivere un libro sulle strade». Ted Conover ha cinquantatré anni e cinque libri alle spalle, tutti vissuti sul filo dell'avventura, tutti frutto di un'adesione profonda alla realtà che voleva raccontare. Ha cominciato a poco più di vent'anni con una tesi di dottorato sugli hobos, i vagabondi della tradizione americana resi famosi da Jack London: uomini che vivono alla giornata attraversando gli Stati Uniti sui vagoni dei treni merci e vivendo di brevi lavori di fatica. Per scriverla Conover è rimasto ad ascoltarli per quasi un anno: ne è nato un libro celebre, intitolato Rolling nowhere; era il 1984. Da allora non ha mai smesso di raccontare il cammino di persone che percorrono strade di vita spesso ignorate, eppure a noi vicinissime.
Tre anni dopo è stata la volta di Coyotes, un libro scritto dopo aver condiviso per più di un anno i viaggi degli immigranti illegali dal Messico. Poi, con una sterzata folle e imprevedibile, lavora come cameriere ad Aspen, Colorado, per raccontare la vita della ricchissima borghesia industriale americana. E ancora: per scrivere un libro sulla vita nelle carceri di massima sicurezza chiede aiuto al governo, e quando gli viene negato sostiene in incognito l'intero addestramento e si fa assumere a Sing Sing: nasce così, nel 2001, Newjack, il libro che gli farà sfiorare il Pulitzer (vinto sul filo di lana da Dave Eggers), e guadagnare una valanga di riconoscimenti. Ed è a questo punto, a quanto pare, che nasce l'idea di Le strade dell'uomo, il suo primo libro tradotto in italiano.
«Il fatto è che viviamo nel tempo delle autostrade elettroniche, ma è ancora la rete delle strade d'asfalto (o di terra, o di ghiaccio) che porta ciascuno di noi verso l'altro: che porta i bambini a scuola, che ci porta le merci, il cibo e i beni di cui non possiamo fare a meno - e che naturalmente porta anche la guerra, il dolore, la malattia. Così ho pensato che sarebbe stato interessante scrivere un libro sul modo in cui le strade interagiscono con i destini, perché ogni viaggio sulla strada è potenzialmente una storia».
Quali destini ha scelto di raccontare?
«Il libro parla di sei diverse strade e di sei paesaggi umani, cominciando dalla storia più semplice, quella che descrive l'avventura di un carico illegale di mogano dalla Foresta pluviale amazzonica agli Stati Uniti, sull'autostrada interoceanica che attraversa le Ande peruviane; il capitolo con cui il libro si chiude racconta invece la realtà più caotica, quella delle strade di una megalopoli fuori controllo come Lagos, in Nigeria, con i suoi 11 milioni di abitanti. In alcuni casi le storie non sono frutto di un solo viaggio: per esempio, per raccontare il viaggio di un gruppo di scolari sul letto ghiacciato del fiume che li porterà a scuola, sono stati necessari due lunghi viaggi nel Kashmir».
Perché queste particolari strade e non altre?
«Volevo raccontare come le strade hanno contribuito a cambiare la storia umana, e continuano a farlo. Raccontare le strade dell'Africa orientale su cui, a partire dalla metà degli anni Ottanta, i camionisti e le prostitute hanno avuto un ruolo importante nella diffusione dell'AIDS prima nell'intero continente, e poi nel mondo; ma raccontarlo viaggiando insieme a loro. Poi, per fare un altro esempio, ho pensato che ci dovesse essere un capitolo sul rapporto fra strade e occupazione militare, ed ecco la lunga esperienza in Cisgiordania. Volevo scrivere un libro su scala globale, che tenendo conto dell'intero panorama si chinasse a raccontare singole vicende».
La letteratura americana ha una lunga tradizione di scrittura 'on the road'. Quali modelli aveva in mente?
«Walt Whitman, Jack London e Jack Kerouac sono certamente fra i miei eroi, anche se per motivi molto diversi. Da giovane ho letto Jack London più di qualsiasi altra cosa; vengo dagli Stati Uniti occidentali, e lui abitava in California: mi riconoscevo in lui e mi piacevano le sue avventure. Ma è probabilmente nel modo di guardare il mondo espresso da Whitman che mi riconosco di più: vedere la strada come il posto in cui l'uomo incontra il suo simile, e con lui si confronta senza barriere sociali o distinzioni: la strada come luogo dove nasce la democrazia. Per chi conosce New York, è l'idea di Times Square: l'Europa ha la piazza, noi abbiamo la strada, l'incrocio. Prima di essere un grande poeta, Whitman era un giornalista, è questo è esattamente ciò che un giornalista deve fare: parlare con gli altri, capire le loro storie. Mi piace pensare di essere erede di questa tradizione. E poi, naturalmente, c'è Kerouac. Lui ha saputo raccontare il viaggio dal punto di vista dell'avventura spirituale ed estetica. Quando penso al suo modo di viaggiare in macchina, per ore e ore, verso Ovest, con la mente aperta a tutto quello che la strada può portare, penso a un'esperienza di tipo quasi religioso. Il suo libro è una celebrazione dell'amicizia e della libertà selvaggia: vede, la strada nel mio paese è sempre stata il mezzo per lasciarsi alle spalle qualcosa di troppo angusto e soffocante, per andare verso l'avventura: sono i temi, per esempio, anche di Bruce Springsteen».
Però oltre a questi temi c'è anche il desiderio di descrivere delle realtà sociali.
«Uno può viaggiare pensando di essere la persona più intelligente dell'autobus, oppure farlo come una persona che sa quanto deve conoscere per capire la realtà che lo circonda, quanto più intelligente potrebbe essere se parlasse la lingua delle persone che incontra, se solo sapesse comunicare i loro sentimenti. È questo il tipo di scrittore che vorrei essere. Non credo di essere un giornalista, perché porto sempre me stesso nella storia che racconto, sono più interessato a quella parte della storia che non sta nelle notizie, e cerco di scrivere qualcosa che possa durare più a lungo nel tempo».
Quali esperienze legate a questo libro le sono rimaste più impresse?
«Le cose che ricordo di più sono quelle che hanno saputo sorprendermi, magari per motivi molto diversi. In Cisgiordania un giorno ho accompagnato uno studente palestinese a casa: non era un tragitto lungo, da Hebron a Ramallah, una strada che in condizioni normali richiederebbe mezz'ora di macchina. A noi ci sono volute diverse ore di un viaggio pesante, con addosso la continua paura di ciò che poteva accadere al prossimo posto di blocco. Quel viaggio lento e angosciante mi è rimasto impresso, così come il suo opposto, in Cina. Fino a non molto tempo fa a un cinese non era permesso di possedere un'automobile privata, e oggi che invece sembra a portata di mano la Cina sta attraversando un boom automobilistico senza precedenti. È impossibile vedere altrove così tanta gente con l'aria beata in un ingorgo stradale: non ho mai visto persone così felici semplicemente per il fatto di stare seduti in una macchina, fermi al parcheggio, fumando una sigaretta col braccio fuori dal finestrino. Mi ha ricordato la soddisfazione di quando a sedici anni ho preso la patente. È difficile descrivere un intero popolo che passa ore e ore in macchina apparentemente per la semplice gioia di poterlo fare».
La stupisce essere accostato alla letteratura di viaggio?
«Non ho nulla contro la narrativa di viaggio, però scrivendo cerco di evitare alcuni dei cliché che le sono caratteristici. Per esempio l'eccessiva concentrazione su se stessi e le proprie emozioni: scrivo in prima persona ma non mi ritengo il soggetto della storia o la star dello spettacolo. Detto questo, amo la letteratura di viaggio e spero che continuino a esserci scrittori e viaggiatori capaci di reinventare questo genere. Confrontarsi con il mondo da prospettive inusuali è un buon correttivo alla superficialità con cui molte persone oggi viaggiano. Credo che gli scrittori siano ancora fra i viaggiatori migliori, e che scrivere sia ancora uno dei migliori modi possibili di viaggiare»