Mostar, un ponte tra due mondi

Saggi e narrazioni

Mostar, un ponte tra due mondi

Alcuni anni fa Gavin Francis ha visitato la Croazia e la Bosnia in compagnia di un giornalista di nome Allan, esperto di Balcani. Il resoconto di quel viaggio occupa il capitolo XXII di Ponti, il più recente libro del medico, viaggiatore e scrittore scozzese.

La Bosnia è un paese per cui, osserva Francis, «la geografia è destino». Se in epoca romana la sua posizione l’ha tenuta al riparo dalle rivolte e dalle agitazioni che laceravano altre parti dell’impero, a partire dal Trecento la regione si è trovata a fare da ponte e insieme da confine tra l’Occidente cristiano e l’Oriente musulmano, tra la forte identità nazionale serba e le ambizioni turche.

L’estratto che segue riguarda il ponte di Mostar, città che sorge sulle colline dell’Erzegovina. Costruito nel Cinquecento, venne distrutto nel 1993, al culmine della guerra nella ex Jugoslavia. La sua importanza era simbolica più che strategica: i croati vedevano in esso un simbolo dell'identità nazionale e del retaggio culturale bosniaci. Francis racconta la storia del ponte, riflette su quello che rappresenta e conclude che «è molto più semplice riparare le connessioni tra le pietre che quelle tra gli esseri umani.

Estratto dal Capitolo XXII, I ponti dell’impero

La parola inglese bridge deriva da un’antica radice indoeuropea che significa “tronco” o “trave”. In molte lingue slave most possiede lo stesso etimo, significa “ponte”, mentre il termine inglese mast (con il significato, ad esempio, di albero di imbarcazione) riecheggia la stessa origine legata agli alberi o ai tronchi. Per costruire l’antico ponte ottomano di Mostar ci vollero otto anni, a partire dal 1560 o poco prima; il 9 novembre 1993, quattro anni esatti dopo la caduta del Muro di Berlino, è stato distrutto. La linea del fronte, nella battaglia tra l’esercito croato e quello bosniaco, era in quel momento il fiume Narenta, che scorre ventiquattro metri più in basso.

 

Allan mi raccontò di un giovane soldato croato che aveva conosciuto nel 1992, e che della Narenta diceva: «Vedi, da questa parte del fiume siamo nell’Europa centrale. Nella civiltà cui appartenevano Mozart e Goethe. Laggiù, sull’altra sponda, c’è l’Est, la Bosnia, la Serbia, si arriva fino a Saddam Hussein e a tutta quella mentalità asiatica». Per quel soldato, la Narenta era una linea di demarcazione carica di significato quanto l’Ellesponto, un confine tra mondi.

 

Al termine della guerra fu costituito un consorzio tra la Banca mondiale, l’Unesco e diversi governi europei per finanziare la ricostruzione dell’antico Ponte di Mostar; si trattava di un simbolo troppo importante perché venisse lasciato in macerie. Fu quindi incaricato uno studio di ingegneri turchi specializzati nel restauro di ponti ottomani; le pietre in frantumi vennero estratte dall’opalescente abbraccio del fiume. Erano così danneggiate che se ne poterono riutilizzare ben poche.

 

Il Ponte di Mostar era stato costruito dall’Impero ottomano nell’ottica di consolidare il proprio potere, rappresentava un simbolo del suo controllo sui Balcani, perciò, dalla prospettiva di alcuni cristiani della regione (che avevano legami culturali e commerciali con l’Austria a nord e con Venezia a ovest, oltre l’Adriatico), non si trattava di un buon ponte, perché contribuiva a fare entrare gli eserciti musulmani da est e facilitava il lavoro agli esattori delle tasse. Forse questo è un altro motivo per cui l’esercito croato lo ha fatto saltare in aria. Lo scrittore albanese Ismail Kadare ha colto questa sfiducia nei ponti tutta balcanica nel romanzo Il ponte a tre archi, in cui racconta l’arrivo dell’Impero turco in Albania. Il ponte, scriveva, è un «collare di pietra» sul loro fiume, la «schiena del diavolo»; «in effetti i grandi edifici somigliano tutti a dei delitti e inversamente […] non ci vedo grandi differenze».

 

Il Ponte di Mostar non rappresentava una grande risorsa dal punto di vista militare; secondo alcuni croati i bosniaci lo usavano per trasportare le armi, ma in realtà ciò che risultava offensivo era il fatto che ricordasse i molti retaggi ottomani ancora presenti su un territorio che loro consideravano cristiano e croato. Si riteneva che il ponte fosse un simbolo di contatto, dialogo e armonia tra i popoli, ma anche dell’estensione dell’Impero turco.

 

La via d’accesso al Ponte di Mostar ricorda in qualche modo le scale di Escher; si attraversano torri occupate in altri tempi dai mostari, i guardiani del ponte, e in cui è attualmente esposta una serie di fotografie che testimoniano alcune delle molte atrocità della guerra. Mi colpì il fatto che questo ipotetico simbolo di armonia tra i popoli venisse usato come galleria per mostrare il conflitto. Mi fermai nel punto più alto dell’arco; la pietra era chiara e lucida, sembrava scolpita dalla roccia di una luna piena, assorbiva ed emanava luce.

 

Nei Balcani vi sono diverse leggende secondo cui, nelle opere murarie dei ponti ottomani, venivano incorporati degli esseri umani con intenti sacrificali, ce n’è una riguardante proprio Mostar: durante la costruzione del ponte due amanti caddero e vennero murati nei timpani, uno sul lato occidentale e l’altra su quello orientale. Secondo la leggenda sarebbe il reciproco desiderio tra i due a tenere in tensione quelle pietre. Si è stimato che, prima della guerra, un buon terzo dei matrimoni in città avvenissero tra coppie di diversa confessione religiosa. È possibile focalizzarsi su quel terzo considerandolo il segno positivo dell’integrazione della comunità, ma è parimenti possibile considerare il fatto che, dopo cinquant’anni di dominio comunista, due terzi della popolazione preferissero sposarsi soltanto tra loro.

 

Sostare sopra l’arco del Ponte di Mostar significava trovarsi sballottato tra turisti italiani, serbi, bosniaci, croati e cinesi, tutti quanti in soggezione, proprio come me, per l’eleganza e l’ampiezza del suo arco, per l’altezza rispetto all’acqua e per il fatto che la visionaria volontà di ricostruirlo fosse stata in effetti messa in pratica. Un uomo con una leggera muta da sub sedeva a cavalcioni del parapetto, pronto a tuffarsi in cambio di qualche euro.

 

In alto, su una collina sopra la città, c’era un’enorme croce, un’inequivocabile dichiarazione di quanto, per molti dei locali, la Narenta fosse un fiume cristiano. Allan mi disse che le due comunità sono ancora in gran parte divise dall’acqua, i cristiani a ovest e i musulmani a est. Alcuni turisti si godevano il sole, la vista, il gelato. Altri osservavano pensierosi, persino tristi; perché è molto più semplice riparare le commessure tra le pietre che quelle tra gli esseri umani.