Se mi prendi per mano: in fuga dalle leggi razziali
Tra avventura e riflessione, l'Italia delle deportazioni e della Resistenza vista attraverso gli occhi di un bambino costretto a scappare
Torino, 1943. Alberto Levi è poco più che un bambino: frequenta la scuola ebraica, sogna di diventare un balilla e spera di servire la patria, perché essere un bravo fascista è la sua più grande aspirazione. Questo fino al primo dicembre, giorno in cui il padre rientra a casa brandendo il giornale, il titolo parla chiaro: “Tutti gli ebrei inviati ai campi di concentramento”. Alberto non capisce, ma l’agitazione con cui viene costretto a fare i bagagli non lascia dubbi: dev’essere accaduto qualcosa di terribile. Salutati gli amati nonni e abbandonati agi e giocattoli, Alberto e il padre Vittorio corrono in stazione; l’obiettivo è nascondersi presso una famiglia di contadini che in passato prestava servizio presso i Levi, nella speranza che la situazione migliori. Ma così non è. Il rischio di retate si fa sempre più alto, i fascisti diventano ogni giorno più spietati e bisogna trovare nascondigli più sicuri e isolati. La fuga diventa costante, le privazioni pesanti da sostenere e nella testa di Alberto è sempre più complicato capire chi siano i buoni e chi i cattivi.
Se mi prendi per mano è un romanzo ricco di avventura e di spunti di riflessione. Bruno Maida è professore di Storia Contemporanea da sempre attento al mondo dell’infanzia come soggetto storico, con particolare attenzione al modo in cui i fenomeni della persecuzione e dello sterminio hanno influito sul percorso di crescita di bambini e ragazzi. In questo suo primo romanzo destinato proprio a loro, Maida racconta con passione il mondo di un ragazzino ebreo cresciuto durante il Ventennio. Dall’entusiasmo ingenuo per gli ideali fascisti all’avvento delle leggi razziali e alla loro recrudescenza, Alberto passa da un mondo idealizzato a quello reale in cui giocoforza si trova a vivere.
Maida, con una narrazione in prima persona, coinvolge il lettore nei ricordi del protagonista. Vediamo attraverso i suoi occhi le passeggiate verso la scuola o al parco, la vita di città, le mattine in classe, il tempo in famiglia, persino i fumetti di regime. È un mondo che pullula di eroi, di speranze e di ambizioni. Nello sguardo di un bambino cresciuto dalla propaganda, il grande sogno inculcato dal fascismo maschera la comprensione dei fatti. Ma attraverso la fuga con suo padre, nel confronto tra i ricordi e la dura realtà, è come se gli occhi del protagonista si abituassero poco alla volta, mettendo finalmente a fuoco la situazione.
Orfano della madre, legatissimo ai nonni, Alberto affronta questo percorso con il padre Vittorio, malinconico ex giornalista che tra censura e discriminazioni fatica a trovare il suo posto in una patria per cui desidera lottare ma che per discriminazione razziale lo bandisce. Insieme sapranno farsi forza nel momento più difficile, arrivando a costruire un rapporto fino ad allora quasi assente.
Fuori dal proprio quotidiano, osservando il mondo e confrontandosi con persone nuove e inaspettate, Alberto saprà liberarsi del peso di un’educazione manipolatoria per prendere una propria, personale posizione, una delle conquiste più difficili da raggiungere.
Bruno Maida è professore di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. Membro del Comitato scientifico dell’Istituto piemontese per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea e del Comitato tecnico-scientifico della Presidenza del Consiglio per la realizzazione del nuovo memoriale italiano ad Auschwitz. Collabora con RaiStoria e RadioTre. Ha pubblicato per Einaudi La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia (1938-1945), L’infanzia nelle guerre del Novecento, I treni dell’accoglienza. Infanzia, povertà e solidarietà nell’Italia del dopoguerra 1945-1948 e Sciuscià. Bambini e ragazzi di strada nell’Italia del dopoguerra 1943-1948.
Ero talmente preoccupato che salutai rapidamente i nonni, rispondendo quasi con distrazione ai loro abbracci, che erano più forti del solito. Non era un addio né poteva- no esserlo. I nonni erano la mia sicurezza: di quelle per cui respiri senza pensarci, ti alzi ogni mattina non chiedendoti perché lo fai, chiudi gli occhi quando il sole ti abbaglia o quando il vento per la prima volta ogni anno ti porta l’odore della primavera. Non c’è una ragione, o forse c’è ma non te la domandi.
Sebbene non facesse molto freddo, mi coprirono fino alla testa con una sciarpa e un berretto di cui non c’era alcuna necessità e che ero convinto mi rendessero ridicolo. Non osai protestare, come sempre, immerso nel mio senso di colpa. I guanti di lana rendevano più facile portare la piccola valigia che mi era stata assegnata. Fu il primo segno dell’avventura. Fino al momento in cui non mi dissero che avrei dovuto prendere io la valigia, tutto mi sembrò fuori da me, lo subivo come il comando di andarmi a lavare i denti, mettermi il pigiama o lavarmi le mani appena rientrato a casa. La valigia mi trasformò in un protagonista. Per un attimo ebbi la sensazione che io e papà eravamo complici di qualcosa.
Entusiasmo e imbarazzo si mischiavano mentre tutto accadeva rapidamente. Eravamo già sulle scale. Avrei voluto salutare Giorgio e quando fummo nell’androne guardai verso la guardiola. Lui si girò dall’altra parte e ne fui sorpreso. Invece papà disse fra sé qualcosa sul fatto che lo aveva sempre saputo che, in fondo, era un buon uomo. Non fu la solita passeggiata, anche se per un tratto percorremmo la stessa strada verso la scuola. Quando passammo davanti alle vetrine di “Isacco” cercai di trattenere papà. Con la coda dell’occhio mi era parso di vedere un nuovo trenino, rosso e dorato. Gli chiesi di fermarci solo un minuto.
«Ci mancano pure i trenini oggi...»
Mi trascinò via come se la mia fosse la richiesta più assurda che avesse mai sentito. Agli adulti non si poteva dire niente che cambiasse i loro piani. «Perché sanno cosa è meglio fare», mi veniva ripetuto ogni volta che chiedevo il perché di un divieto o di un obbligo. Nella maggior parte dei casi obbedivo senza pensarci, a volte mi chiedevo se non fosse che gli adulti sapevano sì cosa era meglio, ma per loro. Quella mattina non ci fu niente da fare e, considerando tutto, era meglio non protestare. Guardai le vetrine solo per un attimo e da lontano, mentre papà insisteva di accelera- re il passo. Dovevamo raggiungere la stazione e prendere un treno che ci avrebbe portato in campagna, da Maria. E dovevamo farlo il più in fretta possibile.