Tè e cotone in Italia
La storia dei tentativi di coltivare in Italia piante originare di paesi lontani, tra curiosità scientifiche e speranze di profitto.
Le grandi scoperte geografiche del Quattro-Cinquecento e il consolidamento della presenza europea in Asia e nelle Americhe hanno avviato una circolazione di merci e di prodotti che ha continuato a crescere fino ai giorni nostri, segno più visibile di quel fenomeno titanico che è la globalizzazione. A questo vortice di scambi e di sfruttamento non si sono sottratti, ovviamente, le piante e i prodotti che se ne ricavano, molti dei quali sono tuttora universalmente utilizzati. Nel corso dei secoli sono stati condotti vari tentativi di coltivare in Europa specie originarie di luoghi lontanissimi.
Emblematico è il caso del tè. La sola specie da cui si ricavino le foglie per l’infusione è la Camellia sinensis, originaria delle foreste tropicali dell’Himalaya orientale. Sconosciuto in Europa fino a metà del Seicento, il tè si diffuse rapidamente e divenne un caposaldo dell’economia britannica, nella madrepatria e nelle colonie. Al tè è legato un episodio di grande valore simbolico, il Boston Tea Party: nel dicembre 1773 un gruppo di patrioti americani salì a bordo di una nave ancorata nel porto di Boston e scaraventò in mare il tè che vi era stivato, in segno di protesta contro la tassazione gravosa imposta dalla Corona alle colonie del Nord America.
Riuscire a coltivare il tè in Europa avrebbe portato benefici incalcolabili nella produzione e nel trasporto. La speranza era di emulare i successi ottenuti con il pomodoro e il mandarino che, originari rispettivamente dell’America latina e dell’Asia tropicale, avevano trovato nel bacino del Mediterraneo le condizioni ideali per prosperare. Gli entusiasmi, tuttavia, vennero rapidamente raffreddati. «La Camellia sinensis, come tante altre, è una pianta no-global e si riproduce solo a casa sua» spiega infatti Fabio Marzano nel capitolo I de I racconti delle piante:
«Predilige ambienti ombreggiati e ventilati ma con accumuli di pioggia superiori ai mille millimetri all’anno. Una fisiologia da brivido che mette alla prova il più esperto dei pollici verdi con una combinazione di esigenze e bisogni difficili da conciliare alle nostre latitudini. Un osso duro, certo. Ma vale la pena riprovare più volte perché con il tè, in quel periodo, si possono costruire imperi economici come quello britannico»
Gli auspici, dunque, erano scoraggianti: in Europa la Camellia sinensis non cresceva. L’Italia non si sottrasse alla sfida e a partire da metà Ottocento i laboratori di varie università si misero all’opera, ma andarono incontro a un fallimento dopo l’altro. Qualche risultato si ottenne a Pallanza e a Pavia, grazie al talento di alcuni eccezionali floricoltori e a condizioni climatiche miracolose, ma si trattò di successi botanici, importanti sotto l’aspetto scientifico ma di impatto commerciale quasi nullo. Marzano racconta la storia della Camellia sinensis italiana dai tentativi dei pionieri fino a un piccolo gruppo di lavoro che, in tempi recentissimi, ha prodotto sul Lago Maggiore una qualità di tè che ha ottenuto grandi riconoscimenti internazionali.
Se il tè è dunque diffidente e riottoso, il cotone è senza dubbio una delle piante più sfortunate mai coltivate in Italia. A segnare l’ascesa e la caduta del settore cotoniero italiano è stato un evento storico lontanissimo nel tempo e nello spazio, la guerra civile americana. Nessuno nella storia ha mai puntato tanto sul cotone quanto la Confederazione Sudista, il paese che tra il 1860 e il 1865 ha tentato di esistere in America ed è stato cancellato al termine di un conflitto costato oltre 600.000 morti, un numero inconcepibile di per sé e ancora di più in un contesto di sostanziale pace come quello dell’Ottocento europeo.
Il Sud, privo di industrie di rilievo ed economicamente molto più debole rispetto all’Unione, poteva contare su un unico strumento di pressione, quello del cotone. Decise così di attuare un embargo verso la Gran Bretagna e le altre potenze europee: i leader confederati contavano che ne sarebbe scaturita una crisi di settore tale da indurre l’Europa ad appoggiare la causa sudista. Il cotone dixie, in effetti, copriva quote altissime del fabbisogno mondiale, ma questo non fu sufficiente: l’embargo si ritorse contro il Sud e contribuì anzi a metterlo in ginocchio. Chiusi i rapporti con l’America,
«le manifatture inglesi si muovono in ogni direzione a caccia di canali alternativi di approvvigionamento. E li trovano poco oltre lo stretto di Messina. Il cotone siciliano è stato giustamente definito una coltivazione “scentrata”, ovvero in una posizione anomala rispetto al baricentro naturale di questo mercato. La produzione nel 1861 non supera i quindicimila quintali, due anni dopo sale a sessantamila. Ma sull’isola la terra è come se fosse benedetta».
Pareva insomma che per la Sicilia potessero aprirsi scenari interessantissimi, dal momento che il cotone isolano era molto competitivo per qualità e quantità. La fine della guerra civile, tuttavia, ridimensionò velocemente il fenomeno. Il cotone americano tornò prepotentemente sul mercato e la produzione siciliana andò in crisi, trascinando con sé le attività dell’indotto. I prezzi andarono a picco le superfici coltivate si ridussero drasticamente. «Una batosta» conclude Marzano «da cui è difficile riprendersi».