Un raffinato zoom su Arles
Come in un meraviglioso e attentissimo zoom fotografico, in questo capitolo dedicato ad Arles lo sguardo di Stefan Zweig ci porta alla scoperta di Arles. Un luogo quasi insignificante al primo approccio, ma che sotto la lente di ingrandimento dell'autore diventa una Wunderkammer, una camera della meraviglie abitate da poeti come Mistral o Dante, grandi re come Carlo V, e da donne bellissime.
In realtà Arles è una vera città provinciale, piccola, impervia, con stradine strette e in salita, di una pulizia non proprio eccessiva: una di quelle cose che viste dal vagone del treno sembrano assai graziose – un giocattolo in lontananza, variopinto e piacevole –, ma che poi da vicino perdono tutto il loro fascino. Anche da un punto di vista economico la città è poco importante: la si voleva tagliar fuori già allora, quando si costruì la rete ferroviaria attraverso la Provenza, ma un certo numero di poeti francesi ci si mise di mezzo e ottenne il collegamento, per contribuire a dar valore agli enormi tesori storici riuniti in questa piccola città. E Frédéric Mistral, il noto poeta cui si deve la riscoperta della poesia provenzale, citato spesso da che è stato insignito del Premio Nobel, ha fondato qui a sue spese un museo nazionale, il Museon Arlaten, che in certo senso dovrà diventare un centro di ricerca sulla cultura provenzale.
L’attrattività maggiore di questa cittadina è stata tuttavia suscitata dai poeti che hanno cantato le lodi delle loro donne: Mistral, Daudet e il compositore Bizet hanno rivelato al mondo la grazia delle arlesiane. E non meno di un tempo, all’epoca della sua fioritura come Arelate, oggi Arles è nota per questo aspetto in tutto il mondo.
Come ho detto: viuzze strette e sporche. Ma all’improvviso si apre un’ampia piazza, e un edificio enorme incatena lo sguardo. L’anfiteatro romano, quasi il più grande della Gallia di un tempo e che aveva posto per trentamila spettatori, si materializza con il suo anello possente, con la ricchezza delle sue facciate e l’esuberante decorazione dei suoi ornamenti. La città intera di Arles – come mostra un’incisione medievale – un tempo lo aveva accolto nella sua cerchia di mura, tanto grandiose erano allora le sue dimensioni; solo nel 1825, per amore dell’effetto artistico, si cominciò ad abbattere le casupole che erano state in gran parte edificate con le antiche pietre del teatro e a ricostruire il vecchio edificio (proprio come nella vicina Orange si è trasformato il teatro antico in un’arena moderna). Esso serve sì ancor oggi alla sua antica destinazione – nelle domeniche d’estate vi hanno luogo regolarmente tauromachie –, ma queste feste sono soltanto un misero surrogato della magnificenza che un tempo si sfoggiava qui nella cavea, almeno a giudicare dal fasto della costruzione.
Arles infatti, nel II secolo, sotto l’imperatore Costantino – di cui è pure la città natale – e sotto i suoi successori, era stata uno dei centri principali dell’Impero romano che comprendeva l’Europa intera. Contemporaneamente però, come sede arcivescovile, la città era anche stata uno dei punti nevralgici della chiesa cattolica, che a sua volta le ha lasciato in eredità monumenti preziosi. Solo a partire dalle grandi migrazioni ebbe inizio la sua decadenza, fugacemente interrotta da brevi periodi di fioritura come attraverso l’incoronazione di Carlo V, che si faceva chiamare ‘re di Arles’. Lentamente cadde in dimenticanza, e solo la parola dei poeti ha riportato in auge, se non la città stessa, almeno il suo nome.
Dell’epoca florida del periodo romano è rimasto ancora soprattutto il teatro, di cui purtroppo si sono conservati soltanto pochi resti. I suoi tesori più preziosi sono stati asportati, in particolare la famosa Venere di Arles, che nel 1683 fu offerta in dono a Luigi XIV e oggi costituisce una delle più belle sculture del Louvre. Alcuni singoli reperti sono riuniti nel Musée Lapidaire, che però può offrire in pratica godimento soltanto ad archeologi di professione.
Non meno significativi sono tuttavia i doni elargiti alla città dai pontificati del xiii e xiv secolo. In onore di san Trofimo, un missionario greco che, stando alla leggenda, fu inviato qui da Pietro stesso a convertire i galli al cristianesimo, furono costruiti una chiesa e un monastero di eccelso valore artistico. Anche qui si dipana in maniera variopinta la leggenda, stando alla quale al posto di questa chiesa ce n’era stata in precedenza un’altra, costruita dallo stesso san Trofimo, la prima chiesa dedicata alla Madre di Dio, edificata quando costei era ancora in vita. È una delle più belle cattedrali romaniche della Provenza, stupenda soprattutto grazie al portale, paragonabile per il lavoro architettonico soltanto alla chiesa di Saint-Gilles. Una piccola serie di gradini sale poi al monastero, che con i suoi freddi corridoi a volta e l’ampia testa a colonnato suscita un’impressione di enorme deferenza.
Il luogo che però fece di Arles un tempo uno dei posti più famosi al mondo sono gli Alyscamps, i Campi Elisi, che una volta erano la necropoli dell’intera cristianità. Originariamente san Trofimo fu sepolto lì, e ben presto si diffuse la leggenda dei molti miracoli e segnali che quella terra consacrata operava. A quanto si diceva, il solo contatto con essa proteggeva il defunto da qualsiasi influsso diabolico: e così ben presto in tutto l’Occidente cristiano fu sentito come un dovere devozionale quello di procurare a ogni caro estinto un posto negli Alyscamps.
Bastava lasciar scivolare lungo il Rodano la bara senza accompagnamento, con acclusa solo la debita somma di denaro perché essa fosse recapitata alla sua pia destinazione. Principi, duchi, vescovi e ricchi uomini d’affari si fecero seppellire qui, migliaia erano le tombe; Dante menziona questa necropoli nella Divina Commedia, e lo stesso fa Ariosto. Solo quando il corpo miracoloso di san Trofimo fu trasferito a Marsiglia quel cimitero perse tutta la sua importanza. Oggi non se ne è conservato che uno stretto corridoio fra alti salici, affiancato a destra e a sinistra da sepolcri in pietra: i sarcofaghi più preziosi, soprattutto quelli dei principi, furono venduti dagli arlesiani nel xvii secolo in cambio di grosse somme; un paio di navi, fatte caricare di feretri da Carlo IX, affondarono nel Rodano, il resto di quei sarcofaghi preziosi si trova a Roma al Museo Barberini. È rimasta soltanto la piccola cappella insignificante. [...]
Stefan Zweig, Quel paesaggio lontano © EDT 2016