Zuppa di Marsiglia

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Zuppa di Marsiglia

“Se siamo come pesci dello stesso mare, se giochiamo con questa metafora universalista, allora non è incongruo pensare al mondo come a un’immensa bouillabaisse.
La purezza non esiste. Non esiste in cucina e da nessuna parte.”

 

Dopo l’“Esperimento con l’Europa” – passare una sola giornata tra Roma, Colonia, Rotterdam, Bruxelles e Parigi – Paolo Di Paolo prova l’esatto contrario: invece che esplorare un continente in ventiquatt’ore, trovare il mondo intero in un solo luogo, Marsiglia. Marsiglia è un porto, quello più ingarbugliato, più meticcio, più raccontato del Mediterraneo. Il posto giusto per un viaggio da fermi che Di Paolo compie attraverso il palato. Paolo Di Paolo fa una programmatica grande abbuffata – poco tempo, poco spazio, come un nevrotico Phileas Fogg – tra Cours Julien e Rue des Trois Rois, una delle zone con la più alta concentrazione di ristoranti etnici. Solo qui, in questo tratto di città, ci sono tre ristoranti francesi, un russo, un portoghese, un indiano, un libanese, un pachistano, due giapponesi, un palestinese, un canadese, un brasiliano, due italiani, un haitiano... Lo accompagna una domanda: quanto ci mettiamo a conoscere gli altri? O, detta più brutalmente, a digerire l’Altro? L’autore passa da questo a quello, munito di buon appetito e delle migliori pagine scritte sul cibo e sulla città: quelle di Tabucchi e Calvino, di Cortázar e, naturalmente, Izzo.
Alla fine del proprio tour, Di Paolo trova la sintesi del proprio esperimento nel più marsigliese dei piatti. Quale? Naturalmente la bouillabaisse! Perché la purezza, in cucina e dappertutto, non esiste…

 

"Vale comunque la pena fare almeno due esperienze, in una città, perché non resti estranea.
La prima è innamorarsi: non è facile, ma può modificare lo statuto dei luoghi, illuminare la toponomastica, stravolgerla. Dove il cuore ha battuto più forte, più intensamente viene sradicato il monumento del condottiero a favore di un tributo al nostro azzardo. L’albergo in cui è cresciuta la nostra febbre guadagna una stella anche se ne ha tre che valgono due, anche se il lavandino era un po’ scrostato e la tenda di plastica ingiallita della doccia era invadente, appiccicosa.
La seconda è, naturalmente, mangiare.”

Un estratto: Mappe

Comunque, nella mappa dei luoghi amati, più che una bandierina c’è un piatto.
Faccio esempi alla rinfusa. I panini al prosciutto cotto, dolci, dolcissimi, a Parigi, Eurodisney, estate del ’92. La paella cucinata solo l’ultimo giorno della mia permanenza a Salamanca, estate del 2000, dalla signora Emilita. Ogni sera, quando tornavo dal corso di spagnolo all’università, trovavo sulla tavola della cucina la cena già pronta. Esa es tu cena: sopa de ajo, un panino con il tonno, una tortilla. I ragazzoni americani della stanza accanto si accontentavano di riso appena scolato e condito con il ketchup. Dalla loro stanza arrivava un gran tanfo di sudore, io cercavo di non incrociarli quando andavo a fare la doccia (rigorosamente mai dopo le 22 e prima delle 7) perché i loro corpi aitanti e disinvolti mi facevano morire di imbarazzo, io ero quello con una camicia a maniche corte – già di per sé discutibile – che aveva Proust sul comodino. La sera arrivavano in camera l’odore della cena di Emilita e la sua voce, parlava al telefono fino a tardi, io leggevo, leggevo, poi dormivo. Ma quella stagione non sarebbe quella stagione se non fosse arrivata a tavola, l’ultima domenica, una paella de marisco epocale – finalmente eravamo tutti insieme, Emilita, sua madre, gli americani e io. E fu una festa. Abbiamo scattato una fotografia che poi avrei dovuto mandarle per posta (no, non c’era WhatsApp), non l’ho più fatto. Emilita raccontò la lunga preparazione mattutina fase per fase, un po’ facendo pesare la dedizione, un po’ aspettando che alzassimo gli occhi dal piatto per esaltarla. Ricordo che la trovai buonissima, e che fu molto più triste – dopo avere mangiato così – andarsene dalla casetta di Paseo de la Estación, mentre di lì a poco sarebbe finita la prima estate che non fosse novecentesca.
Valgono le stesse considerazioni per quelle che chiamiamo radici.