Il sistema verdiano
Nella sterminata bibliografia dedicata alla vita e all’opera di Giuseppe Verdi, il lavoro di Gilles de Van spicca tuttora per l’originalità del progetto, l’eleganza della realizzazione e la profondità dell’argomentazione. L’idea di fondo è quella di abbracciare l’intera drammaturgia verdiana come un insieme logico e articolato, delineandone una sintesi non soggetta all’ordine cronologico e seguendone poi le trasformazioni e le modalità di realizzazione.
Per attuare tale progetto, de Van dimostra dapprima come l’opera verdiana si fondi su un sistema, semplice nelle sue grandi linee, che comporta alcuni personaggi-tipo definiti dai loro atteggiamenti (l’eroe, il giustiziere, il rivale, il tiranno) e da un itinerario in parte obbligato; gli itinerari si combinano poi in intrecci relativamente prevedibili, tanto da rendere possibile compilare una sorta di “piccola grammatica verdiana”. Ma naturalmente il codice così descritto può subire variazioni e cambiamenti, e queste mutazioni sono tanto profonde da trasformare radicalmente la drammaturgia del compositore.
Nella seconda parte del volume, de Van studia la realizzazione musicale di questo codice drammaturgico, e organizza la sua analisi intorno ai due poli tra i quali si dispiega la pratica musicale di Verdi: il “melodramma”, cioè l’estetica dominante nelle prime opere, e il “dramma musicale”, punto di arrivo dell’evoluzione drammaturgica. Il passaggio da un’estetica all’altra è il cuore di una ricerca di enorme interesse, nella quale si descrive la scoperta e la descrizione della dimensione interiore dei personaggi, la ricerca della varietà dei registri, lo sviluppo di una dimensione spettacolare, il gusto dell’ambivalenza e dell’ironia e molto altro. Su tutto domina l’idea di un Verdi uomo di teatro prima che compositore, sempre alla ricerca di una verità scenica che travalica lo stile musicale e la bellezza formale.
Un libro tuttora indispensabile per ogni appassionato o studioso d’opera.
Gilles de Van (1938-2013) è stato Professore emerito di letteratura italiana e storia dell’opera presso l’Università di Parigi III. Traduttore dell’opera completa di Cesare Pavese, ha pubblicato numerosi studi sul melodramma italiano, da Haendel a Puccini, e ha collaborato con varie riviste francesi e straniere. È considerato tra i massimi studiosi francesi dell’opera italiana.
Le opere di Verdi si basano su quattro tipi: l’eroe, il tiranno, l’eroina e il giustiziere. Questi tipi sono per il momento personaggi astratti e vedremo più in là come prendono corpo nei personaggi concreti delle opere. Sono definiti innanzitutto dal loro atteggiamento morale, atteggiamento che di solito viene associato a un registro vocale, a una situazione familiare e a una posizione politica.
I comportamenti non vanno confusi con le azioni, anche se i primi sono all’origine delle seconde; in un’opera le azioni contano meno delle intenzioni per definire un atteggiamento: da una parte è frequente che un personaggio proclami la sua intenzione di agire senza per questo passare all’atto, ma ciò basta a qualificarlo moralmente; dall’altra, una medesima azione riveste un senso del tutto differente, secondo che si associ a questo o a quel personaggio: se l’eroina è vittima di un rapimento, questo apparirà come il legittimo desiderio di strappare la bella a un’odiosa tutela nel caso dell’eroe, come un insopportabile abuso di potere da parte del tiranno, o come la volontà di punire una ribelle nel caso del giustiziere. È l’atteggiamento che determina la reazione passionale dello spettatore, per cui è da considerare fondamentale.
Secondo la definizione di Hegel l’eroe è il tipo grazie al quale «la coscienza universale denuncia l’ordine universale come una perversione della legge del cuore e della sua felicità». La sua sfera morale mette in gioco le nozioni di desiderio, di libertà e di legittimità. Egli ama, non è però l’amore a definirlo – perché altri tipi amano con non minore veemenza –, ma il fatto che il suo amore sia condiviso, cosicché questo consenso libero e reciproco fonda la sua legittimità sulla legge del cuore, legittimità che si oppone ad altre legittimità (ordine universale). Incarna, insomma, l’individualismo come rivendicazione a fondare ogni legittimità sul libero consenso degli individui, ed è beninteso questa larga accezione che lo predispone naturalmente a una dimensione politica e/o nazionale.
Il tiranno è un personaggio familiare nel mondo dell’opera, ma la sua fisionomia evolve col passare del tempo: nella drammaturgia del primo romanticismo si confonde spesso con l’immagine di un usurpatore che prende il posto del legittimo sovrano; nel Settecento può corrispondere, a causa della sua violenza o slealtà, a un cattivo monarca, ma anche a un personaggio fuorviato e reso dispotico dalla passione. È sempre la forza, tuttavia, a denotare la sfera del tiranno insieme all’impressione che l’uso della forza sia iniquo, illegittimo, anche se la sua situazione politica o familiare è di per sé legittima. Se ama e non è ricambiato, usa la forza per pervenire ai suoi fini.
Quando la sua attività si esercita in un campo puramente privato, dà luogo a un sottotipo: il rivale o la rivale. Amneris (Aida) o Eboli (Don Carlos) sono rivali che per non rinunciare fanno ricorso alla astuzia, alla violenza, o almeno alla costrizione; Amneris fa uso della violenza tipica del tiranno quando propone a Radames di salvarlo se in cambio accetta di non rivedere più Aida (IV, 1).
Il tiranno propriamente detto è piuttosto un tipo maschile, ma può essere incarnato da una donna: Abigaille nel Nabucco come Lady Macbeth nel Macbeth tentano di impadronirsi del potere con mezzi abusivi, la prima presentandosi francamente come usurpatrice di un trono che non le spetta. Il tiranno, come personaggio politico, non è sempre tale a causa del proprio potere, ma perché ne oltrepassa i limiti ritenuti legittimi. Opprime un popolo (Nabucco e gli Ebrei o Federico Barbarossa e i liberi comuni italiani nella Battaglia di Legnano) o esercita un potere dispotico (Filippo II nel Don Carlos). Niente si oppone poi perché un personaggio accumuli la funzione del tiranno e quella del rivale, essendo quindi tirannico in campo politico e privato.
Alla confluenza delle sfere dell’eroe e del tiranno incontriamo il seduttore, un tipo che si rivela marginale abbastanza per non essere incluso fra i tipi maggiori; se ne contano solo tre, Raffaele nello Stiffelio, che diventa Godvino nell’Aroldo (voci entrambe secondarie), Riccardo di Salinguerra nell’Oberto e il duca di Mantova nel Rigoletto. In comune con l’eroe hanno il fatto che il loro amore è contraccambiato (e sono quindi tenori), ma con il tiranno condividono il fatto che la reciprocità è stata ottenuta con l’ausilio di mezzi sleali: Riccardo mente sulla propria identità per sedurre Leonora e il duca di Mantova si presenta a Gilda nei panni di un povero studente. L’Ottocento relativamente pudico non ama i libertini, noteremo però l’omaggio unico che il musicista rende a Don Giovanni attraverso il duca di Mantova: non ama questo «personaggio leggero», questo «carattere nullo», ma, affascinato dal suo fare faceto e cinico, gli accorda comunque tre splendidi a solo e ne fa una canaglia di gran classe.