Io, la mia vita e il Reverendo: Dear Martin
Un bravo ragazzo, un tipo in gamba che si impegna al massimo; eppure questo non basta per apparire tale agli occhi di chi lo guarda: è afroamericano, dev'essere per forza colpevole... Una storia di impegno e di lotta, di passione, di vittorie e sconfitte: un romanzo di cui innamorarsi e su cui riflettere.
Justyce ha diciassette anni ed è un ragazzo americano con la testa sulle spalle, oltre che uno dei migliori studenti del suo prestigioso liceo. Lo conosciamo una notte in cui, felpa e cappuccio tirato su, corre ad aiutare la sua ex fidanzata Melo che si è sentita male in un parcheggio; mentre la sta aiutando a salire in macchina, però, una pattuglia della polizia lo ammanetta brutalmente e lo porta via, arrestandolo fino al giorno successivo. Già, perché Justyce è nero; e solamente in virtù di questo, il poliziotto di ronda lo prende per un malvivente. Il ragazzo rimane scosso: non solo smette di lasciar correre le battutine e le bravate a sfondo razzista che sente quotidianamente a scuola, ma comincia a tenere un diario in cui scrivere lettere a Martin Luther King, suo grande esempio. Al Reverendo, Justyce si confida e chiede consigli su ogni tema, in particolare su come riuscire a restare calmi e non violenti in queste situazioni. Intanto la situazione è sempre più difficile…
Il romanzo di Nic Stone (trad. Anna Rusconi), primo per i New York Times Bestseller e tra i 100 migliori young adult di sempre secondo il Time, è un debutto di grande successo. Breve ma densissimo, Dear Martin ha la capacità di raccontare una storia difficile e potente mantenendo l'equilibrio tra azione e introspezione. Il tema del conflitto razziale, molto caldo negli Stati Uniti, lo è anche in Italia: lo stereotipo, il pregiudizio, la paura del diverso e la rabbia che ne scaturisce sono subite da molti immigrati e italiani di seconda generazione; Nic Stone ha il grande merito di dare voce a molti ragazzi – e di parlare ad altrettanti – e guardare in faccia una questione importante per tutta la società. Non solo: la Stone riesce a farlo con spigliatezza, stemperando con umorismo la narrazione che scorre agile alternando risate e sgomento, voglia di rivalsa e sorrisi.
Justyce è un “eroe” semplice, acuto e lucido: dotato di intelligenza, cultura e una spiccata modestia, vive con impegno e attenzione le sfide che la vita gli riserva. Ma non è certo perfetto: alle volte riesce a controllarsi, talvolta invece vincono l'irruenza o la paura e l'errore è dietro l'angolo. Sono soprattutto questi i momenti in cui ci si affeziona di più a lui, quelli in cui si vede in controluce il suo essere un ragazzo desideroso di cambiamento, che sbaglia per ingenuità. Justyce sogna un mondo migliore, ma la realtà lo obbliga suo malgrado a lottare. Ed è questo il punto del romanzo: è profondamente ingiusto essere costretti a difendersi e giustificarsi solamente in virtù del proprio aspetto o della propria provenienza.
Ma seppur nelle difficoltà, Dear Martin è una storia ricca di speranza: nella possibilità che le cose e le persone cambino, nella crescita personale e della società, nella consapevolezza e nel rispetto che ne segue.
25 agosto
CARO MARTIN (ALIAS, REV. KING),
prima di tutto sappi che dandoti del tu non intendo minimamente mancarti di rispetto. In prima liceo ho studiato a fondo la tua storia per una ricerca, quindi in un certo senso è come se ti conoscessi di persona. La cosa che mi viene più naturale, insomma, è trattarti come un amico, spero sul serio che tu non ti offenda.
Breve presentazione: mi chiamo Justyce McAllister, ho 17 anni e grazie a una borsa di studio sto per diplomarmi alla Braselton Preparatory Academy di Atlanta, Georgia. Su 83 studenti del corso mi sono piazzato quarto, sono capitano nelle gare di dibattito, ho un QI da genio e ai test SAT e ACT ho ottenuto rispettivamente 1560 e 34 punti, e pur essendo cresciuto in un brutto quartiere (non troppo lontano dalle zone che bazzicavi tu) mi aspetta un futuro che probabilmente comprende una bella laurea in legge in una delle migliori università del paese e una carriera nell’ambito delle politiche pubbliche.
Tutte cose che, purtroppo, stanotte hanno contato meno di zero.
Per farla breve, stavo cercando di compiere una buona azione e invece mi sono ritrovato inchiodato a terra in manette. E nonostante la mia ex fosse palesemente sbronza da fare schifo, perdona il linguaggio, a quanto pare con la mia felpa con cappuccio io avevo un’aria talmente spaventosa che lo sbirro che mi ha blindato ha addirittura chiamato rinforzi.
La cosa più assurda è che io ero convinto che, una volta arrivati i genitori di lei, si sarebbe chiarito tutto. Invece, nonostante le loro spiegazioni, mica mi hanno lasciato andare! Il signor Taylor si è offerto di chiamare mia madre, ma gli sbirri hanno risposto che siccome ho 17 anni per la legge sono maggiorenne, e che mia madre non poteva comunque farci niente.
Allora il signor Taylor ha telefonato alla madre della mia compagna di corso SJ, che fa l’avvocata, e perché i poliziotti mi levassero le manette ha dovuto venire lì lei ad abbaiargli due o tre minacce di quelle giuste. Quando finalmente si sono decisi a liberarmi era quasi l’alba.
Ore, Martin, capisci?
La signora Friedman mi ha riaccompagnato al campus senza quasi dire una parola, ma poi mi ha fatto promettere che sarei passato in infermeria a farmi dare del ghiaccio per sgonfiare i polsi. Dopo ho chiamato mia madre, per raccontarle tutto, e lei ha detto che oggi per prima cosa avrebbe sporto querela, ma dubito che servirà a qualcosa.
Sinceramente, Martin, non so bene cosa provo. Non avrei mai pensato di ritrovarmi in una situazione del genere. Nel giugno scorso in Nevada c’è stato il caso di Shemar Carson, un ragazzo nero della mia stessa età: un poliziotto bianco gli ha sparato. I particolari sono vaghi perché non c’erano testimoni, ma quello che è chiaro è che il poliziotto gli ha sparato. Quattro colpi. Contro un ragazzo disarmato. A puzzare anche di più è che, secondo il medico legale, tra l’ora presunta del decesso e il momento in cui lo sbirro ha denunciato il fatto c’era un buco di due ore.
Prima dell’incidente di ieri notte non è che ci avessi riflettuto molto. Girano un sacco di notizie discordanti, perciò è difficile decidere a cosa credere. I genitori e gli amici dicono che Shemar era un ragazzo a posto, che stava per andare al college ed era attivo nel suo gruppo giovanile… ma l’agente sostiene di averlo beccato mentre cercava di rubare una macchina. È seguita (così pare) una colluttazione, e sul rapporto si legge che Shemar ha tentato di strappargli la pistola, dunque il poliziotto gli ha sparato per legittima difesa.
Non so. Ho visto delle foto di Shemar Carson e in effetti l’aria un po’ da delinquente ce l’aveva anche. Ma pensavo che cose così non mi riguardassero molto, perché in confronto a lui io non ho un aspetto “minaccioso”, non so se rendo. Non è che vado in giro con le mutande che spuntano dai pantaloni, o con maglie super larghe. Frequento una buona scuola, ho degli obiettivi e «la testa ben piantata sulle spalle», come dice mia madre.
Certo, sono venuto su in un quartiere difficile, ma so di essere un bravo ragazzo, Martin. Credevo che facendo di tutto per diventare un membro rispettabile della società non mi sarebbero toccate le sfighe di QUEI neri, capisci? Insomma, è dura mandar giù che mi sbagliavo.
Adesso riesco solo a chiedermi: «E se non fossi un nero le cose sarebbero andate diversamente?». Mi rendo conto che all’inizio l’agente poteva basarsi solo su quello che vedeva (e in effetti potevo sembrargli un tipo sospetto), ma non mi era mai capitato di essere trattato in questo modo solo per il mio aspetto.
Quel che è successo stanotte mi ha cambiato. Non che adesso intenda andarmene in giro incazzato in cerca di rogne, ma non posso neanche continuare a fingere che fili tutto liscio. D’accordo, non ci sono più le fontanelle riservate alla gente di colore e tecnicamente ogni forma di discriminazione è diventata illegale, ma se possono inchiodarmi a terra con delle manette che mi segano i polsi quando non ho fatto niente di male, è chiaro che qualcosa ancora non funziona. Che la cosiddetta uguaglianza non esiste, come invece vogliono farci credere.
Perciò d’ora in poi ho deciso di prestare più attenzione. Di cominciare a guardare davvero le cose che succedono e prenderne nota. Per muovermi di conseguenza. È per questo che ti sto scrivendo, Martin. Tu hai affrontato situazioni ben peggiori che starsene seduti in manette per qualche ora, ma hai combattuto con le armi che avevi… O meglio, hai combattuto senza armi.
Io vorrei provare a vivere come te. A fare quello che faresti tu. Per vedere dove mi porta. Adesso devo smettere di scrivere perché ho il polso che mi fa un male cane, ma grazie per essere stato ad ascoltarmi.
Tuo,
Justyce McAllister