Le radici di Roger Deakin

Saggi e narrazioni

Le radici di Roger Deakin

Nel cuore della foresta è un viaggio attraverso quattro continenti. Le radici di Roger Deakin, però, affondano saldamente in Inghilterra. Alla fine degli anni Sessanta, nel Suffolk, si imbatte in un malridotto casale in stile Tudor. Il proprietario non sembra incline a venderlo, ma a poco a poco entra in sintonia con Deakin e alla fine acconsente a cedergli la proprietà, oltre a spiegargli per filo e per segno come si manda avanti una fattoria.

Lo scrittore trascorrerà così un anno a restaurare la casa con le proprie mani. Nelle prime pagine del libro Deakin racconta qualcosa della propria famiglia e di quella che diventerà Walnut Tree.

Nel cuore della foresta. Estratto dalla Prima parte: Radicarsi

Mentre intorno a me tutti giravano come trottole impazzite, io sono rimasto placidamente nella stessa casa per oltre metà della vita. Non che non mi piaccia girare, ma in qualche modo, nell’inseguire la mia stella, mi sento più a mio agio pensando che questo posto è lì, un punto fermo. La sua posizione determina le mie coordinate, proprio come nella poesia di Donne, Commiato: divieto di dolersi, gli amanti sono le punte gemelle del compasso:

 

La tua fermezza fa il mio cerchio esatto, Dandomi fine dove ho avuto inizio.

 

Le avventure della famiglia di mia madre, di tutti e nove i Wood, erano la materia preferita delle mie storie della buonanotte. Non ricordo che mia madre mi abbia mai letto una favola, ma mi raccontava le inesauribili avventure della tribù del bosco. Sono cresciuto nella più esclusiva tradizione orale del folclore domestico, quasi interamente popolato dai consanguinei materni: nonna Jones del Galles; nonno Wood dalla chioma argentata, con la sola mano sinistra e un uncino di acciaio al posto della destra; i miei due affascinanti zii e le quattro zie. I nonni, per onorare la tradizione silvana, hanno battezzato due di loro Edera e Violetta. Per tutta la vita mia madre ha ringraziato Dio che a nessuno fosse venuto in mente di chiamarla Primula!

 

La famigliare epopea del bosco è intessuta nelle mie fibre proprio come la memoria e la storia sono intessute nelle travi di quercia della fattoria di Walnut Tree. Ogni trave e ogni palo una volta viveva in libertà e ha la propria storia da raccontare. Esaminandone una sezione un dendrocronologo, dal disegno degli anelli annuali, potrebbe risalire al momento esatto in cui ha cominciato a crescere dalla ghianda o dalla ceppaia e a quello in cui è stato abbattuto.

 

Il podere su cui sorge la casa si trova a ben 53 metri sul livello del mare, sufficienti per metterlo al riparo dalle inondazioni che puntualmente si verificano. Ma è comunque già in parte isolato da un fossato e da una pozza di abbeverata che si estende nel pascolo demaniale, una delle ventiquattro pozze che lo costellano e che sono collegate da un’antica rete di fossi e canali di scolo. Le intricate siepi che circondano i miei quattro appezzamenti costituiscono un’indispensabile barriera contro i venti che investono i campi di grano confinanti, e hanno coperto i fossati, dando vita a un mondo segreto fatto di gallerie di felci scavate tra le fronde. Nel terreno si trova anche un piccolo bosco ed è fiancheggiato, a ovest, da un’antica via di transumanza.

 

Tutto il podere si affaccia sulle rive di un grande mare interno, un’ondeggiante distesa d’erba che a luglio, verso la fienagione, si innalza come una marea coprendo la fattoria del mio vicino sull’altra sponda. Estesa per un chilometro e mezzo a occidente, è il più grande pascolo demaniale del Suffolk. Perciò, nonostante il mare sia oltre 40 chilometri a est di Walberswick, riesco ugualmente a godere di alcuni piaceri del paesaggio marino: la vastità dell’orizzonte e gli spettacolari tramonti. Nel Suffolk abbiamo anche montagne da sogno: i vulcanici cumuli nuvolosi della stagione del raccolto.

 

Perché sono rimasto tanto a lungo? Non perché sia nato o abbia radici qui, ma per tutta la fatica e la storia qui accumulate. Intendo la storia mia e delle persone a me care. Per tre anni ho insegnato inglese al vecchio liceo di Diss, radicandomi ancora di più tra gli studenti e le loro famiglie, con cui ho stretto amicizia. Non c’è modo migliore per entrare in intimità con i propri vicini che insegnare ai loro figli.

Poi ci sono state le fiere medievali di Barsham e il «Waveney Clarion», il giornale comunitario che ho contribuito a organizzare, scrivere e distribuire assieme a tutta la nostra grande famiglia di semi-hippy, da Diss a Bungay, da Beccles a Lowestoft. La cultura rurale che abbiamo costruito insieme negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta contagiava tutti i pionieri impegnati a insediarsi nel Suffolk – rudi falegnami, piccoli agricoltori, musicisti, poeti, manovali e guidatori di Morris Minor famigliari con i profili in legno – spingendoci a unire le forze per costruire quella che è stata, per un momento d’oro, la grande tradizione delle fiere del Suffolk: effimere capitali dall’onirica malia di accampamenti gitani tra campi brulicanti di folla. Ripeto, è stato lo sforzo creativo, audace, sbrigliato ma nello stesso tempo duro, fisico e manuale, a unirci.

 

[…]

 

Quando ho trovato la casa, nel 1969, era in rovina. Avevo avvistato il comignolo sbucare dalla cima di un boschetto di frassini, aceri, noccioli, prugnoli, rovi e sambuco, e di quanto rimaneva di un frutteto di noci, prugni, regina Claudia e meli. Come tutti gli abitanti del paese il proprietario, Arthur Cousins, evidentemente pensava che la casa si stesse nascondendo per morire con discrezione, come un vecchio gatto. Viveva al di là dei campi, nella Cowpasture Farm, con le figlie Beryl e Precious, e nella vecchia casa teneva i maiali dabbasso e le galline di sopra. Il tetto era un mosaico sgangherato di lamiera ondulata e la copertura di paglia residua, decomposta dall’umidità, verdeggiava d’erba e di muschio al punto da confondersi con il prato. Amo le rovine perché realizzano l’intima aspirazione di ogni cosa: tornare alla terra, fondersi con l’ambiente; e nonostante mi sia insediato nella casa da molto tempo, la natura non ha mai rinunciato del tutto ai suoi diritti di passaggio.