Le rivoluzioni di Stuart Isacoff
Il termine “rivoluzione” ha alle spalle una storia interessante, segnata da una radicale – rivoluzionaria, verrebbe da dire – trasformazione semantica. In origine il concetto era legato alla sfera religiosa e a quella astronomica e non aveva nulla della carica di dinamismo, di innovazione e di irreversibilità che oggi gli viene attribuito. Indicava piuttosto un ritorno al punto di partenza, un lungo cammino che riporta là dove si era partiti.
Stuart Isacoff considera questo aspetto fin dall’introduzione di Rivoluzioni musicali: «Secondo Copernico, il concetto di “rivoluzione” implica un ritorno ciclico, com’è quello delle orbite ellittiche dei pianeti intorno al sole, o dell’oscillazione periodica che Galileo usò per spiegare le maree sulla base, appunto, della teoria copernicana». Bisognerà aspettare il Settecento, in clima illuminista, perché “rivoluzione” assuma il significato di trasformazioni di impatto enorme e lunga durata, anche sotto forme traumatiche e violente: la Rivoluzione francese ne è l’esempio più noto.
Le rivoluzioni musicali di Isacoff sono momenti della storia – il libro ne analizza quindici – in cui la musica è radicalmente cambiata, e con essa la cultura occidentale. L’autore, come detto, sottolinea l’onda lunga di questi cambiamenti, il fatto che non si manifestino «tutt’a un tratto, imprevedibili come un’eruzione vulcanica; essi si svolgono piuttosto secondo una traiettoria ad arco, preceduti per tempo da accenni e da modelli, e hanno postumi di lunga durata […] All’interno di un cambiamento rivoluzionario, a dispetto dello shock disgregatore della novità, è possibile cogliere una simmetria. La storia, ha osservato Mark Twain, può non ripetersi esattamente uguale, ma in rima: l’universo si dispiega a somiglianza di un grande poema epico, abbozzando una serie infinita di connessioni. Ma, quando si cerca di descrivere l’arco di sviluppo di un certo fenomeno musicale, è inevitabile domandarsi fin dove si debba risalire nel ricercarne l’origine. C’è il rischio di impegnarsi in una caccia senza fine, dal momento che mai è esistita un’epoca senza musica».
I grandi momenti individuati da Isacoff coprono così quasi duemila anni di storia. Si comincia dall’alto Medioevo, con le autorità religiose alle prese con una questione decisiva: mettere la musica al servizio della Chiesa, indurre la comunità dei credenti a cantare a una sola voce. Per farlo, occorreva prima di tutto trascrivere le melodie in modo che i cantanti potessero studiarle senza doversi affidare alla sola memoria. Fu Guido d’Arezzo (990-1050) a escogitare un sistema pratico per collegare la notazione all’atto fisico del canto: a lui si deve la scala delle note tuttora in uso. Altri capitoli sono dedicati alla polifonia, alla nascita dell’opera, alle prodezze dei virtuosi del periodo romantico, Paganini in testa. Tra le rivoluzioni del Novecento si parla dell’irruzione del jazz sulla scena parigina, di 4’33’’ di John Cage, «una delle esperienze d’ascolto più intense possibili», di Arnold Schoenberg che demolisce l’armonia occidentale. Altre cesure sono segnate da personaggi capaci di cambiare radicalmente le regole del fare musica, da Bach a Beethoven, da Liszt a Duke Ellington e Miles Davis.
Nell’epilogo Isacoff ricorda l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven il giorno di Natale del 1989, poche settimane dopo la caduta del Muro di Berlino, e osserva che questa composizione pone un ammonimento agli aspiranti rivoluzionari in musica. Accolta con favore a Vienna, infatti, la Nona era stata stroncata a Londra: troppo insolita, lunga, con quella bizzarra trovata del finale con le voci. Ci fu addirittura chi insinuò che la sordità di Beethoven ne avesse compromesso le facoltà, appannato il genio. Il tempo ha avuto ragione dei critici, ma, conclude Isacoff, «l’audacia artistica del calibro beethoveniano ha aperto spesso la strada alla grandezza. Lo spirito umano è infine incontenibile. E la rivoluzione continua».