Personale e politico. Una biografia del Novecento
«Se c’è una cosa che abbiamo imparato dagli anni Sessanta, è che il personale è politico», scrive Stuart Jeffries nella parte di Grand Hotel Abisso dedicata a quel decennio.
Jeffries applica la formula al caso di Herbert Marcuse, che in Eros e civiltà (1955) aveva affrontato le possibilità della rivoluzione sessuale in un’America del dopoguerra totalmente assorbita dall’idea del sesso. Marcuse sperava «che si verificasse una trasformazione radicale della società, che il principio di piacere venisse liberato dalla dittatura del principio di prestazione, che gli umani tornassero a diventare esseri erotizzati – completi, realizzati e liberi». Anni dopo, ne L’uomo a una dimensione, Marcuse smorzerà gli entusiasmi sostenendo che questa liberalizzazione «non era sovversiva ma anzi contribuiva a mantenere al suo posto l’esistente ordine oppressivo».
In ogni caso il filosofo, in una fase della contestazione studentesca e della rivoluzione dei costumi, diverrà una sorta di idolo per gran parte dei movimenti, venerato in modo non diverso da Mick Jagger o Bob Dylan. Venerato e contestato con la stessa intensità, va detto: nel 1969 Marcuse, invitato a tenere una conferenza al Teatro Eliseo di Roma, venne incalzato dalle domane di Daniel Cohn-Bendit, leader del Sessantotto studentesco parigino. «Com’è successo che sei arrivato nel teatro della borghesia?» chiese Danny il Rosso. E ancora: «Herbert, ci dici perché la Cia ti paga?». Marcuse preferì lasciare la conferenza, anche se in una lettera ad Adorno negò di averlo fatto a causa della contestazione.
Ecco dunque, da parte di Jeffries, la curiosità in merito alla vita sessuale di Marcuse. La pagina dedicata all’argomento è molto brillante, tra matrimoni, vedovanze e altri matrimoni, con un posto di rilievo occupato dagli… ippopotami: «Si metteva seduto con un ippopotamo di peluche in grembo e proiettava questa immagine di una sessualità non aggressiva, non genitale» ricorda Paul Neumann, figliastro di Marcuse. Questo aspetto rendeva Neumann, piuttosto scettico sull’investitura del patrigno a profeta della liberazione libidica.
Grand Hotel Abisso è strutturato proprio sugli accostamenti tra personale e politico, tra biografia e filosofia. A cominciare dalle origini dei componenti dell’Istituto per la ricerca sociale, quasi tutti accomunati da famiglie benestanti, appartenenti al retroterra ebraico secolarizzato: una condizione paradossale che liberava questi studiosi dal bisogno e permetteva loro di condurre le proprie ricerche ed elaborare le proprie teorie, teorie che miravano ad abbattere il sistema politico che aveva consentito loro di formularle.
Jeffries prende in considerazione i ricordi d’infanzia di Walter Benjamin, una mela candita appena uscita dal forno. I dissapori tra Erich Fromm e Herbert Marcuse, culminati in un incontro in treno in cui Marcuse ignorò Fromm, che non gliela perdonò. Le vicende sentimentali, il lunghissimo matrimonio di Max Horkheimer e le frustrazioni d’amore di Walter Benjamin. Il litigioso Adorno e le sue dolcissime lettere alla madre, chiamata «ippopotamessa» e firmate «Re ippopotamo Archibald»: il che porta Jeffries a domandarsi come mai la Scuola di Francoforte facesse un feticcio degli ippopotami.
E poi, naturalmente, il libro tratta l’evento storico e biografico più rilevante per i membri della Scuola, la Shoah e il senso di colpa dei sopravvissuti, che scosse in particolare Theodor Adorno, per il quale Auschwitz non era paragonabile ad alcun orrore precedente. Molti francofortesi riuscirono a lasciare la Germania prima di essere travolti dalle persecuzioni razziali (Benjamin invece non ci riuscì: si suicido al confine tra Francia e Spagna la notte prima della probabile salvezza), ma dovettero affrontare il trauma personale e quello intellettuale legato alla fragilità della cultura, alla constatazione impotente che modernità e barbarie, per nulla alternative e antitetiche, erano al contrario tenute insieme dall’indifferenza e dalla complicità. La cultura non proteggeva dal male: ecco lo shock più duro da assorbire.
Alla fine della guerra molti colleghi di Adorno – Marcuse, Fromm, Neumann, Kirchheimer – rimasero in America. Henryk Grossman scelse la Germania Orientale, nella sfera di influenza sovietica. Adorno, avvertendo non solo la colpa ma anche la responsabilità del sopravvissuto, tornò invece dalla California a Francoforte. Arrivato a Parigi scrisse a Max Horkheimer: «Il ritorno in Europa mi ha colpito con una tale intensità che mi mancano le parole per descriverlo. E la bellezza di Parigi splende più magnifica che mai attraverso gli stracci della povertà. Ciò che vi è ancora qui può anche essere storicamente condannato e reca una traccia fin troppo riconoscibile di tale condanna, ma il fatto che ancora esista, la sua stessa non contemporaneità, fa parte anch’esso dell’immagine storica e cela la tenue speranza che, nonostante tutto, qualcosa di umano sia sopravvissuto».