Šostakovič e l'animo umano
Perché l’ascolto di una musica triste o cupa ha spesso il potere di mostrare un raggio di luce alla mente incagliata fra le secche della depressione? Da dove viene questa misteriosa capacità di una composizione musicale di suggerire all’umanità sofferente un invito alla resistenza e alla speranza?
Sono alcune delle domande a cui lo scrittore e musicista Stephen Johnson cerca di dare una risposta attraverso un’originale ricerca che prende spunto dalla sua battaglia personale contro il disagio psichico, e dal ruolo decisivo che in essa ha giocato la conoscenza del percorso creativo e biografico di Dmitrij Šostakovič.
La musica del compositore russo è a tratti fra le più intense, aspre e strazianti scritte nel Ventesimo secolo, eppure la sua capacità di riflettere con tanta esattezza e autenticità i traumi della psiche e, più in generale, della condizione umana, spinge l’ascoltatore a una insperata presa di coscienza della propria capacità di emozionarsi nonostante tutto. E riesce nel miracolo di inserire la sofferenza personale in un grande racconto collettivo. Facendo appello alle conoscenze della neurologia e della psichiatria, alla letteratura e alla filosofia, Johnson ci invita a riflettere su questo potere curativo della musica, e ci offre al tempo stesso un inedito ritratto di uno dei compositori più enigmatici e geniali del Ventesimo secolo.
Stephen Johnson è nato nel 1955 nel Regno Unito. Giornalista radiofonico, compositore, scrittore e documentarista, collabora regolarmente con i maggiori media britannici, fra cui BBC Radio 3, 4 e World Service. È autore di documentari televisivi di grande successo sui compositori classici, e di diversi libri dedicati alla musica. Scrive per “The Independent”, “The Guardian”, “BBC Music Magazine” e “Gramophone”.
dalla Prefazione
Eppure la sorella suonava così bene! La sua faccia era piegata
da una parte, i suoi occhi seguivano le righe della musica
con profonda attenzione e tristezza. Gregor strisciò
ancora un poco avanti e tenne la testa sempre più vicina al
pavimento per incontrare possibilmente i suoi sguardi. Era
davvero una bestia, se la musica lo commuoveva tanto?Franz Kafka, La metamorfosi
Chissà se Dmitrij Šostakovič conosceva queste parole. Kafka gli piaceva molto, mi hanno detto; del resto, su questo compositore colossale ed enigmatico ho sentito raccontare, da gente che l’ha conosciuto e ci ha lavorato, storie di ogni genere, non tutte conciliabili. Era un uomo che aveva imparato a indossare sempre una maschera o un’altra, come toccava fare ai personaggi pubblici sotto la spaventosa dittatura di Stalin, se intendevano sopravvivere. A quanto sembra Šostakovič si era abituato a dire sempre quello che credeva la gente si aspettasse da lui, perfino quando parlava con gli amici. Dovevano essere ben pochi, fra i suoi intimi, quelli di cui si fidasse davvero, e comunque se ne fidava solo in momenti particolari. Šostakovič era anche e prima di tutto un compositore e come tanti compositori sembrava nutrire una diffidenza istintiva verso le parole come veicolo dei suoi pensieri più autentici e riposti.
Immaginiamo che Šostakovič abbia effettivamente letto questa celeberrima e disperata parabola kafkiana, magari in una copia procuratagli da un amico impavido o reperita sul mercato nero: difficile non figurarcelo che si sofferma per qualche istante su quel passaggio, specialmente sulla domanda finale. Basterebbe il fatto che vi si parla di musica, ma c’è anche da osservare che, nel contesto del racconto, esso arriva del tutto inatteso. Gregor Samsa, il personaggio di Kafka, come in un incubo si trova trasformato in un insetto gigante, quindi vede la sua famiglia attraversare stati successivi di shock, di compassione, di ostilità, per assestarsi infine in una specie di indifferenza torpida davanti a quel caso apparentemente senza speranze.
Ma poi ecco il suono del violino della sorella di Gregor, assorta in esso «con profonda attenzione e tristezza», e quella domanda, come un raggio di luce repentino ma obliquo: «Era davvero una bestia, se la musica lo commuoveva tanto?». È facile immaginarsi Šostakovič che si pone la stessa domanda nei momenti critici di quella sua carriera così poco rettilinea, momenti in cui, schiacciato dalla riprovazione ufficiale, vilipeso da colleghi e amici, tormentato da dubbi sulla propria integrità artistica e addirittura sul proprio valore come essere umano, trovò comunque la forza di stringere i denti e continuare a scrivere.
Tuttavia il libro che avete in mano, tengo a sottolinearlo, non ha affatto il proposito di svelare un qualche “Šostakovič autentico”, di districarlo da quel suo complesso sistema di maschere e barriere difensive per dire: «Ecco chi era!». Anzi, a dire la verità questo libro non parla nemmeno di Šostakovič, no. Parla dell’effetto che la sua musica, come quella della sorella violinista di Gregor Samsa, ha avuto su chi l’ha ascoltata: sui russi, che, insieme con Šostakovič, hanno vissuto gli orrori dello stalinismo, sugli occidentali, sui quali la sua musica ha in qualche modo esercitato un richiamo, su chi scrive, superstite a tre diagnosi di disturbo bipolare e che nella musica, specialmente in quella di Šostakovič, ha trovato un’ancora di salvezza.