Terra Santa: una storia del presente
Israele/Palestina dal 1989. Il nuovo volume della collana di Storia Globale del Presente.
Una famosa foto ritrae Yasser Arafat e Ytzhak Rabin che si stringono la mano, a Washington, sotto lo sguardo di Bill Clinton: era il 1993, e l’intesa era la conseguenza degli altrettanto famosi Accordi di Oslo. Sembrava l’inizio di una nuova epoca, ma a 16 anni di distanza la pace sembra ancora una chimera.
Da questa evidenza muove Mark LeVine nel nuovo volume della collana di Storia Globale, La pace impossibile. Israele e Territori Palestinesi dal 1989. Abbiamo chiesto a LeVine, il rappresentante più autorevole di una nuova generazione di studiosi dei problemi mediorientali, di introdurci alla lettura e di indagare per noi le cause del fallimento di Oslo e del perdurare della violenza in questa affascinante e dolente area del mondo.
1. Mark LeVine, il suo libro è un'analisi esaustiva del fallimento degli Accordi di Oslo, stipulati nel settembre 1993 tra Israele e Palestina. Perché quegli accordi nacquero, in qualche modo, sotto una cattiva stella?
Non fu solo per cattiva sorte se il processo avviato a Oslo non portò a una soluzione efficace del conflitto. Come spiego nel libro, invece, la verità è che numerosi problemi di lunga data e storicamente radicati resero quel fallimento inevitabile. Gli insediamenti, per esempio, lungi dall'essere un'anomalia successiva al 1967, erano una chiara continuazione dell'epoca precedente al 1948 (in termini di tattica e strategia in riferimento alla costruzione di colonie ebraiche in terra palestinese). In modo simile, mentre l'obiettivo dichiarato di Oslo era l'incremento dell'autonomia economica palestinese, nella realtà gli accordi di Oslo portarono a marginalizzare la Palestina e ad accrescere la sua dipendenza da Israele. In definitiva, questioni come Gerusalemme e i rifugiati non potranno mai essere risolti se i rapporti di forza tra le due parti continueranno a essere così asimmetrici, consentendo a Israele di non fare le impegnative concessioni necessarie alla pace e lasciando ai palestinesi poco spazio per una resistenza produttiva.
2. L'ultimo capitolo del libro è dedicato a quel mostro orribile che si chiama "violenza". Si tratta di una tara ereditaria tra Israele e Palestina? Perché i due popoli non riescono a superare questo ostacolo?
La violenza serve a troppi interessi da entrambe le parti. Sul fronte più ampio, la violenza palestinese fa più comodo al governo israeliano di quanto lo sarebbero azioni non violente, concertate, bene organizzate. E molti dei più importanti attivisti non violenti, come Mubarak Awad, sono stati esiliati da Israele o messi al margine. Inoltre, come molti palestinesi direbbero, nel contesto di un'occupazione così penetrante e salda, anche solo vivere la propria vita e affrontare la routine del quotidiano è un atto di non-violenza. Mentre gli israeliani temono il passaggio dei palestinesi dalla violenza all'idea di una democrazia laica in Israele/Palestina, gruppi come Hamas hanno preso il potere proprio perché sono stati disposti a usare un'estrema violenza nel momento in cui Fatah, la storica guida dell'OLP, è stato ampiamente limitato da Israele e Stati Uniti. La stessa Hamas ha impedito ai palestinesi di impegnarsi in azioni non violente.
3. Qual è il ruolo del fondamentalismo nell'attuale tensione tra Israele e Territori Palestinesi?
In modo un po' paradossale, vista l'attenzione rivolta a Hamas e al radicalismo religioso palestinese (e islamico, in una prospettiva più ampia), Hamas è solitamente considerato l'attore più fondamentalista e conservatore sulla scena del conflitto. Questo non è affatto vero. L'estrema destra ebraica - che negli ultimi decenni ha esteso il proprio potere sociale, politico e (grazie all'esercito) militare - ha creato una connessione tra religione, politica e territorio molto più forte di quella di Hamas, che per molti aspetti è diventata una presenza sempre più laica e politicamente moderata - accettando, per esempio, la soluzione dei due stati e la divisione territoriale che la controparte israeliana non ha nemmeno preso in considerazionne. Ma, in definitiva, gli estremisti religiosi non sono il problema più grave. Il problema principale è che lo sviluppo degli insediamenti ha avuto talmente successo e ha raggiunto una tale ampiezza che Israele ha compreso che i costi dello smantellamento (in termini di conflitto interno e persino di violenza) sarebbero probabilmente più ampi di quelli di un'occupazione permanente. Finché prevalgono le ragioni dell'interesse, non c'è possibilità per la pace.
4. Come lei acutamente evidenzia, non è possibile scrivere una storia del presente di Israele e Territori Palestinesi senza considerare il ruolo della globalizzazione in quest'area. A questo proposito, che peso hanno gli interessi economici nell'attuale tensione?
La componente economica del conflitto, che analizzo accuratamente nel libro, è uno dei principali responsabili delle sofferenze dei palestinesi. Come conseguenza delle politiche neoliberali del governo israeliano, i palestinesi furono progressivamente esclusi dal mercato del lavoro in Israele in favore dei più economici e più facili da gestire lavoratori stranieri. Queste scelte di chiusura servivano anche ad attuare, almeno nelle intenzioni, misure di sicurezza, cosa che contribuì a renderle popolari tra gli israeliani. Allo stesso tempo, in modo simile al caso delle maquiladore in Messico ("stabilimenti industriali posseduti o controllati da soggetti stranieri, in cui avvengono trasformazioni o assemblaggi di componenti temporaneamente esportati da paesi maggiormente industrializzati in un regime di duty free ed esenzione fiscale. I prodotti assemblati o trasformati dovranno successivamente essere esportati all'estero. Questo fenomeno è caratteristico tra il Messico e gli Stati Uniti" - grazie Wikipedia, N.d.R.), le aree di confine tra i Territori divennero la sede di numerose aree industriali nelle quali i palestinesi lavoravano per aziende israeliane, senza però entrare veramente nello stato di Israele. Infine, il netto vantaggio economico, militare e politico ha permesso a Israele di imporre condizioni tali sullo sviluppo palestinese da dissuadere i palestinesi dall'intraprendere ogni tipo di nuova attività che potesse competere con Israele. Detto questo, in definitiva la componente economica ha soltanto aggravato la situazione. La continua contesa territoriale e l'incapacità di raggiungere un compromesso sui rifugiati furono le ragioni principali del fallimento del processo di pace.
5. Infine, vuole consigliare al viaggiatore (e lettore) italiano esperienze da vivere in prima persona per capire lo spirito di questi luoghi?
Sono così tante... I due paesi, per esempio, hanno un territorio sorprendentemente vario e bello, nonostante le dimensioni estremamente ridotte. Vorrei dire che bisognerebbe provare ad avvicinarsi a uno dei principali checkpoint, come Qalandiya, per sperimentare come i palestinesi sono costretti a vivere nel quotidiano. Ancora, bisognerebbe andare in giro e vedere come il Muro ha diviso i palestinesi da Gerusalemme e dai loro territori agricoli. Infine, osservare con attenzione gli insediamenti mentre ci si sposta verso il West Bank, e paragonare il loro livello di sviluppo a quello delle vicine città palestinesi. E, ancora, a Hebron si può entrare nel più intenso microcosmo del conflitto, così come attingere alla fonte della solidarietà religiosa. Parlo della Tomba dei Patriarchi, che ha dato a entrambi i popoli così tanta speranza nel corso dei secoli.