Joséphine Baker e quell’America che non cambia
«Negli Stati Uniti sicuramente è cambiato tutto! La guerra che ha mescolato popoli e razze, che ha visto combattere fianco a fianco bianchi e neri, ha certamente spazzato via gli ostacoli e abbattuto i pregiudizi sul colore della pelle». Questo si dice Joséphine Baker nel 1948, in procinto di tornare negli Stati Uniti, in compagnia del marito Joseph Bouillon, dopo dodici anni di assenza. L'auspicio, del resto, non è infondato, o almeno questo suggerisce l'esperienza. È appena terminata la seconda guerra mondiale, e la fine della prima aveva portato con sé cambiamenti radicali in tutti gli aspetti della vita pubblica: società, economia, ruolo delle masse, funzionamento dello Stato, condizione della donna.
Invece i problemi cominciano subito, fin dall’arrivo a New York. La metropoli del nord pratica una discriminazione a mezza voce, garbata nei modi, scandita da contriti «very sorry» ad accompagnare le difficoltà e gli impedimenti. La coppia non viene esplicitamente respinta, viene esasperata e costretta ad andarsene dai luoghi frequentati dai bianchi. Baker decide allora di andare negli stati del Sud, dove la situazione è di gran lunga peggiore, per verificare e vivere di persona le condizioni dei neri.
Quali siano queste condizioni emerge già durante il viaggio in treno. Quello del treno, peraltro, è un elemento simbolico importante: nel 1892 Homer Plessy, un uomo di aspetto caucasico ma con un bisnonno afroamericano, era stato arrestato in Louisiana per il suo rifiuto di viaggiare a bordo di una carrozza riservata ai neri. Plessy aveva fatto ricorso contro l'arresto e insistito fino alla Corte Suprema, che nel 1896 gli aveva dato torto, confermando il principio del "separati ma uguali" in base al quale la segregazione poteva convivere con l'impianto costituzionale degli Stati Uniti. Tale principio si applicava in moltissimi contesti, dalle scuole ai luoghi pubblici ai bar alle forze armate.
Il treno ha dunque una carrozza ristorante aperta a tutti, ma i neri devono sedersi intorno a tavoli nascosti da una tenda. Una volta arrivati al Sud viene aggiunta la carrozza per i neri e nelle stazioni compaiono cartelli che indirizzano i "Bianchi" e i "Neri" verso sale d'aspetto, buffet, bagni diversi. «Più ci si addentra nel Sud del paese» ricorda Baker «più il vecchio stato d’animo razzista resiste. Per la gente del Sud il nero americano, seppure non sia più uno schiavo (e certi lo considerano ancora tale), non deve mai mischiarsi con i bianchi». Ecco la ragione, ad esempio, per cui un genio della musica come Duke Ellington può esibirsi nel Sud davanti a platee bianche in delirio, ma solo se accompagnato da musicisti neri: «Provi a farlo salire sul palco con dei bianchi, verrebbe appiccato il fuoco al teatro».
Baker è furibonda: «“Né ebrei, né cani, né niggers”… Nel 1948, dopo la guerra e tante inaudite crudeltà, dopo tante sofferenze, Marcel, è una cosa che ti spacca il cuore». La sua analisi è ponderata e precisa. «C'è di tutto negli americani» osserva. «Il meglio e il peggio e tanta incoscienza». Ha ben chiare le premesse economiche, il mito del self-made man che identifica la felicità nella ricchezza e nel successo, e poi l'omologazione, l'adesione a modelli di vita, di narrazione e di consumo talmente simili per tutti da indurre l'artista ad affermare che in America sono «a modo loro, comunisti». Una parola, questa, da maneggiare con grande cautela negli USA del dopoguerra, segnati dalla “paura rossa”, dalle persecuzioni maccartiste e dalla famigerata Commissione per le attività antiamericane.
No, ben poco è cambiato in questa America riscoperta da Joséphine Baker.
Lei non si rassegnerà mai, e negli anni successivi sarà ancora in prima fila nel sostegno al movimento per i diritti civili degli afroamericani. Il 28 agosto 1963 Joséphine Baker salirà sul palco del Lincoln Memorial davanti alle 250.000 persone arrivate a Washington per la Marcia per il lavoro e la libertà. Vestita con la divisa della Resistenza francese, al petto le medaglie guadagnate durante la guerra e la Legion d’Onore, Baker prenderà la parola poco prima di Martin Luther King e del suo «I have a dream».
«Ho appena ricevuto un invito» dirà allora «a fare visita al presidente degli Stati Uniti a casa sua, alla Casa Bianca. Ne sono profondamente onorata. Ma devo dirvi che non ci andrà una donna di colore, o come dite qui in America una donna nera. Ci andrà una donna. Ci andrà Josephine Baker. È un immenso onore per me. Io voglio che un giorno anche voi bambine che siete qui abbiate questo immenso onore. E noi sappiamo che quel giorno non è «prima o poi». Noi sappiamo che quel giorno è adesso».