Una pianta del futuro: l’olivo nelle città
Il termine “antropocene”, coniato negli anni Ottanta, ha preso discretamente piede per indicare l’epoca in cui viviamo, caratterizzata dalla funzione centrale dell'essere umano nella modificazione dell'ambiente terrestre. Un dominio che a partire dal Settecento, complice il vertiginoso aumento della popolazione mondiale, ha alterato radicalmente gli equilibri naturali, causando una drammatica riduzione delle foreste tropicali e della biodiversità.
Tuttavia le piante, se possono, tornano sempre. «Per allontanarle da noi abbiamo costruito muri, ancora prima di farlo per tenere alla larga gli animali selvatici e gli altri esseri umani» osserva Fabio Marzano nelle prime pagine de Il ritorno delle piante. «Un distacco progressivo che ha accentuato i gradi di separazione dal mondo vegetale fino allo scisma delle moderne metropoli dalle quali sono poi state esiliate, per ultime, anche le coltivazioni agricole».
Tra i vari casi presi in esame da Marzano nel libro c’è quello dell’olivo. Coltivato in origine nel bacino del Mediterraneo, ha svolto una funzione storica, culturale e spirituale di enorme portata come catalizzatore di civiltà e legame tra umano e divino: ora, trainato proprio dal riscaldamento globale e da ragioni di mercato, l’olivo sta migrando verso nord, in particolare nelle aree urbane, dove la sua capacità spiccatissima di catturare anidride carbonica e polveri sottili lo rende quanto mai prezioso.
Nell’estratto che segue, tratto dal Capitolo 5, Marzano racconta questo curioso esempio di pianta che supera i confini naturali della propria specie e si ricava uno spazio nel modello futuro delle città sostenibili.
Gli olivi oggi si coltivano nelle aree urbane. In alcune città del Centro Italia di recente sono stati aperti i primi oliveti urbani. Alcuni sono stati realizzati dal nulla, altri sono recuperi di impianti storici imprigionati nel cemento durante l’onda lunga dell’espansione edilizia. Pur essendo per la maggior parte cultivar da olio, sono stati piantati non per il valore agricolo ma per quello ambientale.
Dal gennaio 2023 a Casal Brunori, nella periferia sud di Roma, con una donazione di sessanta euro si possono adottare giovani olivi di due anni che crescono in un’area verde di oltre cento orti urbani chiamata Ort9.
In cambio non si riceve qualche bottiglia, magari con un’etichetta personalizzata, ma si contribuisce a migliorare la qualità dell’aria del quartiere. L’olivo cattura anidride carbonica e polveri sottili come pochi altri. E questa può essere la sua seconda vita, in città. La maggior parte degli alberi sequestra i gas serra e i particolati che circolano in pericolose concentrazioni nelle metropoli più inquinate. Lo fanno con le foglie e attraverso un processo fisiologico, la sintesi clorofilliana, che si può definire una respirazione al contrario rispetto a quella animale: assorbono CO2 e rilasciano ossigeno. Alcune piante sono efficienti, altre meno, ma l’olivo è tra i campioni di questa categoria mangia-smog. Una rilettura contemporanea che converte questo monumento dell’agricoltura mediterranea in una pianta del futuro.
Non è così semplice misurare con precisione cartesiana quanta anidride carbonica un singolo albero sia in grado di assorbire. Dipende dall’età, dall’altitudine a cui cresce e dalle tecniche agronomiche. In dodici mesi, in media, un olivo di quindici anni sequestra tra i 50 e i 150 chili di CO2. Mentre un esemplare più maturo, tra i trenta e i cinquant’anni, può raggiungere i duecento chili. Gli esperti di olivo, interrogati, sono molto cauti perché non ci può essere una risposta definitiva, uno standard assoluto. Come spesso accade, quando si parla di questa pianta così emblematica, non ci sono certezze. Il bilancio di inquinanti atmosferici catturati aumenta in proporzione all’età degli alberi: quanto più sono longevi, tanto più potranno accumulare gas serra e attenuare gli effetti del riscaldamento globale sulle nostre città.
L’olivo, peraltro, non perde le foglie durante la stagione fredda, il periodo dell’anno in cui l’aria si carica maggiormente di smog. La chioma estesa agisce come una rete da pesca che intrappola le particelle nocive in circolo nell’atmosfera.
«Questo genere di agricoltura urbana è ancora allo stato embrionale. Le prime esperienze si contano sulle dita di una mano. Ma in campo finanziario l’olivo è tra le specie selezionate per il cosiddetto Carbon Farming, un genere di coltivazione dedicata non tanto alla produzione alimentare quanto al rilascio di crediti di carbonio, quote di aria pulita, se così si possono definire, acquistate dalle aziende che non possono permettersi di ridurre le proprie emissioni se non portando i libri contabili in tribunale.
I tecnici definiscono l’olivo un albero “polifunzionale”, che può contribuire a migliorare l’alimentazione e la qualità della vita nelle nostre aree metropolitane. Gli oliveti, come gli orti urbani, diventano spesso incubatori di progetti sociali e di comunità. Secondo le Nazioni Unite l’olivo ha un posto riservato nel modello di città sostenibile.
Rimane infine la produzione di olio: ci sono oasi cittadine dove si conservano diverse varietà dimenticate ma importanti per l’agrobiodiversità olivicola e in grado di favorire specie spontanee come l’asparago selvatico e le orchidee. Oltre a tutti quei benefici che gli alberi di media dimensione offrono alle città, come l’ombreggiatura estiva, la presenza dell’olivo oggi può aumentare addirittura il valore degli immobili.
Ma non poteva mancare anche un difetto: tra aprile e maggio questa pianta, come molte altre, rilascia nuvole di polline che nei casi più estremi, come per esempio in Spagna, costringono gli allergici a indossare una mascherina di protezione.